Lo scorso 16 dicembre avevamo avuto la triste notizia del suo sdradicamento e abbattimento al suolo per via di forti raffiche di vento; gli agenti atmosferici dello scorso inverno avevano definitivamente incrinato il delicato equilibrio sul quale si reggeva la vita della pianta, già sofferente negli ultimi anni. Fin dal 2008, infatti, era stata certificata la morte biologica (poiché il ciclo vegetativo era ormai al termine) del gigante secolare da parte di Claudio Ciccarone, fitopatologo dell’Università di Foggia interpellato dal responsabile del Wwf locale Mauro Cutone. Attacco di agenti parassiti, inquinamento, incuria, asfalto, clima inidoneo, sono tra le cause della sua lenta agonia ipoteticamente addotte (ma mai fino in fondo accertate). Da allora lo stesso Cutone si era impegnato nel tentativo di rianimare il grosso albero “annaffiandolo” durante il periodo estivo con circa cinquemila litri di acqua al giorno, oltre che lanciando frequentemente sos agli organi preposti sull’importanza della salvaguardia e recupero della pianta plurisecolare attraverso interventi mirati da parte di esperti. Sollecitazioni che, a quanto ci è dato vedere, sono rimaste per lo più inascoltate. Il Wwf aveva catalogato la grande quercia come facente parte del patrimonio naturalistico italiano, elevandola dunque a monumento nazionale (oltre che “albero monumentale” tra i più grandi in Puglia) per la sua storicità – oltre nove secoli sulle spalle – e per la sua maestosità (alta 30 metri, e con un tronco della circonferenza di ben 6,30 metri).
Lo spettacolo di ieri è testimoniato da video e foto, e non c’è bisogno di sottolineare quanto dispiaccia ritrovarsi per caso ad assistere a scene come questa. Come se non bastasse aver contribuito (inevitabilmente) a estirparne le radici, occorre anche bruciare e quindi eliminarne ogni traccia? (fuoco appiccato da chi, poi? Ieri intorno alle 17 non c’era nessuno a presidiare la zona).
Non è solo un blocco di legno ad ardere, o un po’ di ramoscelli ad essere stati casualmente spezzati. E’ un pezzettino del nostro passato, della nostra terra e della nostra memoria ad essere andato via. Era un pezzo ancora vivente, forse l’unico (biologicamente parlando) qui in Capitanata che conteneva un passato della storia del mondo, dei millenni che furono e di cui tutti – che ne abbiamo maggiore, minore o anche nessuna coscienza, per interesse, passione o vicinanza geografica – siamo e potremmo continuare ad essere parte. Sono cose che a chi vogliamo più interessino ormai? Un altro pezzettino coperto da un altro vuoto, da cenere grigia, come un ennesimo colpo mortale inferto ai pensieri e alla fantasia. E’ strano dover ritrovarsi a fare di questi pensieri proprio allo scoppio di una nuova (attesissima) primavera di odori e colori.
Secondo una leggenda popolare il nome della quercia deriva dal racconto delle gesta del cavaliere di Santa Justa, un cavaliere “giusto” (sorta di Robin Hood italiano, che come nelle leggende inglesi rubava ai ricchi, ossia ai signori francesi, per dare ai poveri, i lucerini). La leggenda di Santa Justa sarebbe da ricondurre al periodo immediatamente successivo alla sconfitta di Manfredi, erede di Federico II di Svevia: nel periodo federiciano, la città di Lucera era abitata prevalentemente da coloni saraceni, deportati dalla Sicilia in quanto dediti alla pirateria e al saccheggio. Tuttavia, costoro con il tempo divennero fedeli e irriducibili sudditi dell’imperatore svevo, tanto che, alla distruzione della colonia ad opera degli Angioini cattolici, ormai vincitori, un nutrito gruppo di essi si diede alla macchia nei rigogliosi boschi che in quei tempi circondavano la città: questo gruppo di saraceni venne giudato, appunto, dal cavaliere di Santa Justa. Uno dei principali luoghi di ritrovo di questi fuorilegge fu proprio la quercia, all’epoca già centenaria. Questa è infatti la storia descritta anche nel 1936 da Gaetano Pitta nel romanzo “Santa Justa”, ambientato all’interno della colonia saracena di Lucera, subito dopo la sconfitta di Manfredi e la resa della città a Carlo II d’Angiò: nel libro il protagonista è proprio Santa Justa (il marchese Federigo da Montecorvino), un cavaliere discendente da una nobile famiglia, di probabile origine normanna, che aveva legato le sue sorti a quelle del casato degli Hohenstaufen, giurando fedeltà agli imperatori Federico II e Manfredi. (Foto: Marco Di Gioia e Maria Teresa Squeo / Testo -Video: Annarita Favilla)
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