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Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato – P. Jackson, 2012

AUTORE:
Redazione
PUBBLICATO IL:
6 Gennaio 2013
Cinema //

Peter Jackson (fonte: hollywoodreporter.com)
Questa scheda è spoiler-free: nel rispetto del lettore vergine della visione del film verranno isolate, nell’arco della recensione, eventuali rivelazioni critiche di trama (spoiler) su note a piè pagina, oltre a essere suggerito, a fine articolo, un indice della presenza di punti sensibili nell’opera il cui svelamento accidentale possa incidere su una sua corretta fruizione

Titolo originale: The Hobbit: An Unexpected Journey
Nazione: Nuova Zelanda, Stati Uniti, Regno Unito
Genere: fantasy

E’ il 13 dicembre 2012, manca poco al Natale (e alla fine del mondo) e c’è ressa dinanzi ai cordoni di contenimento, la linea di partenza è affollata, l’attesa è spasmodica.
Atterrato da Marte l’ultimo hi-tech plagiante della Apple?
Peggio, molto peggio.

Peter Jackson torna al timone e traghetta i fan di mezzo mondo nel primo capitolo della trilogia-prequel de Il Signore degli Anelli, Lo Hobbit, con la stessa filosofia cinematografica della precedente fortunata saga accalappia-oscar. Protagonista assoluto Bilbo Baggins e il suo coinvolgimento da parte di Gandalf nell’impresa dei nani di Erebor successiva all’occupazione del loro regno da parte del drago Smaug. Dopo un’iniziale riluttanza, l’avventura sarà intrapresa.

Lo Hobbit - poster
E’ forte la tentazione di lasciare da parte il cinema e percorrere nel presente articolo la rischiosa linea della lettura sociologica. E non solo in quanto sociologia e antropologia sarebbero gli strumenti probabilmente più adatti per raccontare l’euforia di massa verso questi pervasivi lavori fantasy di ultima generazione, ma soprattutto perché il cinema, inteso come forma di comunicazione e narrazione per immagini, sembra rivestire un ruolo sempre più marginale in queste operazioni, con l’aggiunta dell’inganno (condiviso) di non sembrarlo.
Perché, dunque, parlarne?
Per svelare il trucco di un’illusione che non voleva essere principalmente (grande) cinema alla fonte, ma che viene scambiato per tale?
Per raccontarci di una possibile ridefinizione del termine “cinema”?
C’è Tolkien, ci sono i suoi religiosi discepoli, c’è la messa in scena, ci sono immagini maestose, c’è la musica e la tecnologia al servizio della fantasia: questo si voleva fornire, questo il pubblico desiderava raccogliere. Si lasci al confine la settima arte e si parli sic et simpliciter di alimento, cibo, polpetta dalla semplice alchimia e di utenza che vuol saziarsi esattamente di quella pietanza, fine della discussione.

Ma Lo Hobbit non lascia troppi consensi in giro, questa volta Jackson non mescola bene i quattro ingredienti per irretire la massa di devoti e qualcuno se ne accorge. Qualcuno mette le distanze, qualcuno snobba questo lavoro a base di nani e orchi e si erge altezzoso dalla cima della trilogia de Il Signore degli Anelli, lì col naso alto e il piglio critico, senza accorgersi di essere seduto sulla stessa inconsistenza cinematografica.
Lo Hobbit, paradossalmente, grazie ai suoi deficit serve a parlare con più limpidezza e chiarezza di idee proprio dei tre film che l’hanno preceduto, rivelatore degli ingranaggi invisibili che portavano a riva la nave. Le carenze di forza narrativa, le grossolane psicologie dei personaggi, la sceneggiatura balbettante nella cara trilogia erano sormontate, nascoste dalla varietà e densità degli avvenimenti, dalla massiccia dose d’azione, dalla numerosità dei dettagli e, in fondo, anche da pochi momenti di buon cinema, soprattutto nel secondo capitolo. Tutto concorreva a mantenere alta l’attenzione per bombardamento più che per sofisticata realizzazione e il gioco funzionava, tutti contenti a casa, urlanti e con l’oscar in mano.
Lo Hobbit accusa proprio su questi fronti, sull’accumulo, sulla somministrazione a grosse tranches di adrenalinici combattimenti e manca l’articolazione a tratti cervellotica e distraente dei fatti. A quel punto delle due una: o si fa finalmente del cinema o si rischia di svegliare anche lo spettatore intorpidito dalla regressione infantile.
Buccia di banana e Jackson finisce per terra.

Lo Hobbit - poster
Lo Hobbit è per questo un capitolo peggiore della trilogia campione degli incassi?
Irrita quasi affermarlo se questo comporta al contempo dichiarare migliore un cinema furbo. Sì, Lo Hobbit è un oggettino meno efficace perché meno truffaldino degli altri tre ma non per onestà, solo per defaillance del prestigiatore. La stoffa è identica e minuto dopo minuto di visione spiazza riconoscere la mano , i difetti, le negligenze già tutti sul tavolo – coperto! – degli episodi di dieci anni fa. La mascheratura cadeva a tratti anche allora – si ricordi il pesante incipit del primo capitolo -, ma poi arrivavano i mostri, le guerre, le musiche, la nostalgia dei fan di Tolkien a caccia di dettagli recuperati e dimenticati, e si tornava sotto ipnosi.

Analisi impietosa?
Tentiamone un’altra, la più indulgente possibile, quella che concede un po’ sul valore cinematografico e si incontra con il media moderno: la saga di Jackson è la risposta perfetta all’utenza televisiva, la migliore applicazione su grande schermo dei canoni medi usati per il piccolo schermo.
Parole chiave: telefilm, serie TV.

No, non è un riferimento alla serializzazione di un’opera non certo riassumibile in un unico volume ma alla fattura della messa in scena.
Sconvolge, sin dall’opera del 2001, constatare la piattezza televisiva di personaggi, dialoghi e molti, tanti momenti di sceneggiatura. Ancora una volta l’addensamento dei fatti tentava di coprire le lacune e ci riusciva perfettamente presso il grande pubblico, ma fondava radici sulla stessa bieca formula di successo di estrazione televisiva, quella che porta al culto tante serie che giocano sui fatti e non sulla proposizione degli stessi; il raccontare, l’affabulare, arti difficili messe in secondo piano giacché non acquistabili, come il resto, con super-budget nei negozi di hardware e software ma frutto di studio e onesta conoscenza del linguaggio del cinema, oggi non più indispensabili, solo extra encomiabili. Sufficienti sono gli accadimenti, il tipo e il numero, quelli che cerca lo spettatore, ormai dimentico per disabitudine della differenza tra un dettato e un raccontato. Addio cinema.
Lo Hobbit - poster
Un caso bizzarro – e non ci si accanisce contro – che Lo Hobbit sia caronte dell’ammaliante 48 fps – oltre, ovviamente, al consueto e consolidato bluff del 3D -, una riproduzione che migliorerebbe la resa dei dettagli, ma che inevitabilmente appiattirebbe l’immagine relegando ai margini la profondità e corposità del vecchio 24 fps. E’ lei, ancora la filosofia dell’utenza e del fornitore, la prima ormai geneticamente mutata sulla visione dagli schermi TV digitali e delle alte frequenze, dove si fatica e riconoscere differenza di grana tra telefilm e film, questi a tratti indistinguibili dai loro stessi dietro le quinte a causa di una lucidità, levigatura d’immagine prima solitamente associata solo alle riprese dei lavori.

Quasi si è tentati di mollare la presa verso Lo Hobbit e lasciar correre che sia un film sconsolatamente infantile, termine, naturalmente, usato nella sua accezione di immaturità e non di contenuto. Che gli argomenti non siano destinati ad un pubblico adulto non ha mai costituito un giudizio di valore in qualunque forma artistica né discrimine per l’età di fruizione, ma che essi siano trattati con la banalità dei modi per regrediti sì. Se necessario, per schiarirsi le idee, si invita alla visione di uno qualunque dei primi lavori della Pixar, infantili nel neutro significato di “attinenti all’infanzia” ma dall’immensa maturità narrativa e cinematografica.

Nessuna differenza all’orizzonte?
Correte a prenotare i biglietti, ragazzi, che fra un anno arriva il secondo capitolo de Lo Hobbit!

CANDIDATURE Oscar 2013 – migliore scenografia (Dan Hennah, Ra Vincent e Simon Bright), miglior trucco (Peter Swords King, Rick Findlater e Tami Lane), migliori effetti speciali (Joe Letteri, Eric Saindon, David Clayton e R. Christopher White)

Valutazione: 5.5/10
Spoiler: 6/10

altreVisioni

Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, A. Cuarón (2004) – terzo capitolo della saga: Cuarón prova a cambiare stile di regia con pretenziosità alla Gilliam, ma scivola spesso sulla novità e dimentica anche il resto * 4.5
Boys don’t cry, K. Peirce (1999) – disagiante, romantico e schizofrenico percorso di adattamento di una ragazza in cerca di una nuova identità sessuale. Molti passaggi non memorabili sono compensati da un complesso che vince e lentamente strugge * 7.5
Surveillance, J. C. Lynch (2008) – riscoperta la Lynch dopo Chained, esce doppiato un suo singolare vecchio lavoro: misterioso e vagamente lynchiano, perde qualche colpo quando cerca il virtuosismo delle situazioni. Da vedere * 6

In Stato d’osservazione

Vita di Pi, A. Lee (2012) – avventura * 20dic
La bottega dei suicidi, P. Leconte (2012) – animazione * 20dic
La migliore offerta, G. tornatore (2012) – drammatico * 1gen
The Master, P. T. Anderson (2012) – drammatico, Venezia 2012 * 3gen
Cloud Atlas, T. Tykwer & Wachowski Bros. (2012) – dagli autori di Matrix * 10gen


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"Or in quel tempo sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo" (Libro di Daniele)

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