Un lungo momento di riflessione che ha visto la partecipazione sentita, accorata, a tratti addirittura commossa di Michele Galante, Franca Pinto Minerva e Vito Antonio Leuzzi, appunto. Ma, soprattutto, dell’amico di una buona fetta di vita di Foa, Pietro Marcenaro, senatore in quota Partito Democratico, piemontese, ex piccì, pds, pd.
Di Foa, a tre anni dalla morte, sono stati ricostruiti i tratti esistenziali. In maniera tanto vivida da farlo sembrare presente. L’attualità del suo pensiero, gli incontri con Tommaso Fiore e le campagne meridionaliste; l’amore filiale nutriti nei confronti di papà Peppino Di Vittorio, il legame con la Costituente. Quel luogo oggi irraggiungibile, quasi mistico per la politica caciarona di oggi. Quel luogo dove si finiva anche ad una scazzottata ben meno che aleatoria, ma dove “le regole venivano scritte insieme sena distinzioni”. Laddove “Foa si è ritrovato con Einaudi, Moro si è ritrovato con Togliatti”. Le frasi di Leuzzi, echi che ricordano “Il vecchio e il bambino”, testo, parole e musica di Francesco Guccini. Ma con la variante della politica in vece dei campi di grano, dei “frutti e dei fiori”, delle “voci e dei colori”, con queste carni portatrici di idee distanti a fare da generazioni contrapposte. Il Presidente dell’Istituto per la Storia dell’Antifascismo ricorda soprattutto i valori di Foa e quel continuo, martellante, volontario richiamo ala sobrietà, all’umiltà, alla decenza.
Lui, portatore di una dignità al di sopra delle parti ed al di sopra degli status. Un uomo di mondo in un mondo di non uomini. Si racconta di lui, lo racconta Marcenaro, che una volta una delegazione dell’Anpia, l’Associazione nazionale perseguitati italiani antifascisti, andandolo a trovare nella sua dimora di Formia, tentò di convincerlo ad aderire alla causa. In fondo, chi più di lui, partigiano dopo la costrizione alla prigionia? Ed invece, la risposta obiettata contiene i confini umani di una personalità di rottura di ogni schema, testardo e ponderato: “Io – disse loro – non sono stato un perseguitato. Io sono stato un persecutore del fascismo”. Duro, durissimo, disciplinato. Soprattutto abbarbicato ai suoi principi sino all’ultimo attimo terreno. L’amore per la democrazia impossibile da esportare, per la pace da costruire, per il futuro e la fiducia nelle generazioni avvenire. Soprattutto, una passione per la libertà. Ancora Marcenaro, con fare emozionato: “Vittorio Foa era convinto che la libertà si potesse perdere solo a patto di rinunciarvi volontariamente. Altrimenti c’è sempre possibilità di resistere. Tanto che lui raccontava di non essere mai stato libero come quando era in carcere”. Costretto nel corpo, libero nell’animo. Resistente fino al giorno della morte, cui non si rassegnò mai, pensando sempre di dover andare oltre, di dover costruire, troppo occupato a vivere malgrado la cecità, l’impossibilitazione alla lettura, altra sua compagna inscindibile. Un cannone fino all’ultimo, sempre carico, sempre fantasioso, sempre creativo. Come quanto, di fronte alle scherzose allusioni del comunista Giancarlo Pajetta, che, nel 1986 gli imputava, alla celebre porta 2 delle carrozzerie di Mirafiori, di aver cambiato troppi partiti, rispose che “ci sono due modi per essere coerenti. Entrambi rispettabilissimi. Quello di chi, per essere fedele ad un’idea cambia spesso partito e quello di chi, per essere fedele ad un partito cambia spesso idea”.