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“Il Welfare è una conquista sociale”. PdZ: per Manfredonia più 12,7 milioni (Video)

AUTORE:
Redazione
PUBBLICATO IL:
30 Aprile 2011
Manfredonia //

Conferenza stampa Ass. Welfare e Lavoro (ST)
Manfredonia – IL dibattito promosso dall’Associazione Lavoro e Welfare di Capitanata ha avviato il confronto fra i diversi attori sociali e mosso le critiche dei giovani disoccupati e studenti alla presenza dell’Assessore regionale al Welfare Elena Gentile. Il confronto si è svolto nella sala del Palazzo dei Celestini alla presenza del Professore Silvio Cavicchia ricercatore e sociologo di Manfredonia e del coordinatore provinciale dell’Associazione Salvatore Castrignano, oltre che delle autorità politiche e religiose locali.

Welfare significa letteralmente “Stato del benessere” o “Stato sociale”. Lo Stato è il promotore indiscusso del bene sociale che investe risorse nei settori quali la previdenza e l’assistenza sociale, sanitaria, l’istruzione e l’edilizia popolare. Soprattutto sembra mutata la dinamica del Welfare, partita da una concezione assistenzialista si è passati a una logica di sussidiarietà, di responsabilità, di opportunità per i cittadini. Una forma di cittadinanza attiva e collaborativa con gli enti locali e tutte le strutture territoriali annesse.

I NUMERI DEL WELFARE IN CAPITANATA – Nella relazione esposta dal Prof. Cavicchia emergono realtà importanti dal quadro socio-economico della Capitanata:” oltre 5.000 giovani, in gran parte diplomati e laureati emigrano dalla nostra Provincia per cercare opportunità lavorative. Rispetto al 2000 la popolazione di Capitanata è in diminuzione di 7.000 abitanti. Il welfare territoriale potrebbe ridurre le disuguaglianze sociali e dall’altro contribuire alla crescita economica territoriale. Il welfare è un investimento se non si riduce a semplice assistenzialismo. In tal senso vanno considerate le risorse finanziarie dei Piani Sociali di Zona. Nel triennio 2010/2012 nell’ambito territoriale dell’Alto Tavoliere che ha al centro il Comune di San Severo è previsto un impiego di circa 19 milioni di euro, nell’ambito di Lucera circa 9 milioni di Euro. Nell’ambito di Manfredonia è di circa 12 milioni e 700 mila Euro in incremento rispetto al triennio precedente”

Commenta ancora il Prof. Cavicchia: “ E’ centrale l’integrazione delle diverse politiche sociali che incidono sulle condizioni di benessere e salute, come le politiche per la casa, del lavoro, della formazione e del lavoro. Manfredonia appare urbanisticamente come una città cresciuta su modelli costruttivi individuali, che vede indebolirsi la tradizionale identità comunitaria. Non è la massima volumetria di edificabilità ad essere prioritaria , ma andrebbero riviste tipologie costruttive aventi al centro le relazioni umane, di coesione e inclusione sociale. Esempi positivi sono il lungomare del Sole, la riunificazione del centro storico col mare, l’utilizzo socializzato delle Aree fronte mare; mentre esempi negativi sono le periferie, la 167 e i nuovi quartieri”.

DONNE E WELFARE – Al dibattito interviene l’assistente sociale Michela Prencipe che non si sottrae di interrogare la platea sulla condizione della donna e il suo apporto nella società:” Un’indagine dell’ISFOL ( Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori) indica che le cause dell’inattività femminile ruotano intorno alla famiglia, al modello di welfare (carenza di servizi per l’infanzia, presenza di reti familiari e informali) e all’organizzazione del lavoro, quindi dei bassi livelli di conciliazione tra lavoro e famiglia e la rigidità degli orari di lavoro”. “ Al di là della constatazione oggettiva della mancanza di lavoro , come mai la maggior parte delle donne non lavorano? Sono persone occupate nella cura dei figli e degli anziani? Come mai nel nostro territorio tante giovani donne scelgono di costituire un nucleo familiare autonomo? E’ frutto di una scelta o costituisce un ripiego ad una condizione femminile rilegata ai lavori familiari e domestici?” Domande che inducono ad una profonda riflessione.

“PROMUOVERE L’AUTODETERMINAZIONE DELLA POPOLAZIONE” – L’Assessore alle politiche sociali di Manfredonia Paolo Cascavilla si sofferma sui mutamenti continui della società: “ Siamo in un cantiere aperto, siamo nella fase dei lavori in corso nel contesto che viviamo. Bisogna muoverci con pragmatismo e velocità. La politica non deve far altro che far dialogare le diverse parti sociali. Si è sempre inadeguati rispetto ai bisogni che aumentano. I piani sociali di zona si muovono per obiettivi, non per fasce di età. Dobbiamo promuovere l’autodeterminazione della popolazione, insieme a tutti gli strumenti come l’assistenza domiciliare scolastica, bisogna partire dai bambini. Per un’efficace economia sociale bisogna scavalcare i meccanismi dell’invidia sociale che dilaga nei nostri ambienti”.

“IL SISTEMA CAPITANATA E’ ORMAI SUPERATO” – Il sindaco di Manfredonia Angelo Riccardi si interroga:” Perchè i giovani emigrano? Noi siamo in competizione, una competizione tra i territori. E’ importante pensare a sistemi più piccoli che interagiscono tra loro. Il sistema Capitanata è ormai superato. Chi amministra un territorio è fortemente influenzato dalla criminalità organizzala e da forti lobby economiche. Questa città non aumenta demograficamente, ma paradossalmente si stanno costruendo nuovi quartieri. Per la questione sicurezza sono attive circa 32 telecamere di video-sorveglianza, senza contare il contributo per il Patto della città aperto a tutti affinché la lotta alla criminalità sia affidata a ciascuno. E per la sanità? Pensate che si spendono 210 mila Euro l’anno per un posto letto in Puglia. Dobbiamo passare da una visione ospedalocentrica alla deospedalizzazione. Il sistema toscana deve diventare il nostro punto di riferimento”.

“LA SOFFERENZA DELLA FAMIGLIA” – L’Assessore regionale al Welfare Elena Gentile individua diverse argomentazioni che ruotano intorno alla questione del Welfare: “ Noi di questa grande rivoluzione del Welfare siamo orgogliosi, abbiamo fornito cittadinanza, ma anche quel modello pugliese eterogeneo. La Regione Puglia, attraverso le leggi regionali n. 17/2003 (sistema integrato d’interventi e servizi sociali in Puglia) e la n. 19/2006 ( disciplina del sistema integrato dei servizi sociali per la dignità e il benessere delle donne e degli uomini di Puglia) ha attivato il nuovo sistema di welfare locale. Un tema scabroso è quello dell’accoglienza. Noi abbiamo imposto quell’idea di solidarietà che costituisce la realizzazione dell’integrazione, quello dell’albergo diffuso per i migranti. Penso agli 800 nigeriani ridotti in schiavitù per la costruzione dei pannelli fotovoltaici. Siamo passati dal pomodoro ad una nuova forma di schiavitù. Diciamo di no al modello dei respingimenti, ma accogliamo un modello delle oggettive possibilità di integrazione, questo è il Welfare pugliese, senza concessioni di fondamentalismo alcuno. Dal 2006 abbiamo un modello di famiglia declinata al plurale, vista la complessità della situazione sociale e della sofferenza della famiglia”.

mariapia.telera@statoquotidiano.it

VIDEO, PROF.SILVIO CAVICCHIA – COORD.S.CASTRIGNANO

2 commenti su "“Il Welfare è una conquista sociale”. PdZ: per Manfredonia più 12,7 milioni (Video)"

  1. Abbiamo un assessore regionale al Welfare di tutto rispetto. Sue le parole che ho condiviso maggiormente.

  2. Giovani disoccupati, ma non solo

    La disoccupazione giovanile è a quota 29 per cento. Il lavoro precario è triplicato. Ma i problemi del mercato del lavoro, nella forma della precarietà-disoccupazione, si sono nettamente spostati verso le età adulte

    di Fabrizio Carmignani*

    Non più di tre anni fa, quando la crisi era già incombente ma gli effetti non ancora manifesti, le preoccupazioni maggiori vertevano sui rischi di perdita del lavoro per la vasta popolazione di occupati precari. Preoccupazione un po’ tardiva: era prevedibile che la flessibilità, dopo tante celebrazioni, avrebbe presentato il conto completando la sua funzione. D’altra parte, a sorpresa, la crisi ha colpito immediatamente anche il lavoro stabile e quella preoccupazione è stata ben presto sostituita dall’altra, derivante dalla vertiginosa crescita della cassa integrazione che, a scadenza, può trasformarsi in disoccupazione esplicita anche se non è possibile determinare in che misura ciò avverrà o sia già avvenuto.

    Attualmente il motivo dominante è però un altro dato: si tratta del “record” della disoccupazione giovanile che è al 29 per cento, numero ormai conosciuto da tutti perché domina gli articoli sul mercato del lavoro da diversi mesi. Che le cronache quotidiane cerchino la notizia è naturale, ma alla lunga la notizia non è più tale ed è inutile ribadirla; conviene approfondirla, cercando di cogliere le implicazioni e le eventuali differenze con situazioni simili che si sono verificate nel passato.

    Per quanto riguarda la disoccupazione giovanile, ad esempio, ha ragione il ministro Brunetta quando sottolinea che è una tradizione italiana, anche se imputarla all’articolo 18 è difficile visto che è ben più antica. L’interrogativo dunque è il seguente: in che misura la crisi ci ha riportato agli anni 80, al dramma dei giovani che “rimangono anni e anni in attesa di occupazione”, oppure le trasformazioni recenti e passate hanno mutato radicalmente i connotati della condizione giovanile? Se si guarda ai “record” del tasso di disoccupazione, in effetti, vi sono ben poche differenze rispetto al passato; nell’altra grande crisi dell’ occupazione, quella del 1993, i tassi di disoccupazione giovanili erano sugli stessi valori odierni e tali rimasero per cinque anni (vedi grafico 1). Certo, si dovesse ricalcare quell’andamento e quella durata, non c’è da stare allegri, ma al momento è del tutto inutile fare previsioni. Del resto le analogie con la situazione passata finiscono qui, mentre vi sono differenze fondamentali che possiamo sintetizzare così, prima di approfondirle.

    1) L’ uscita da quella crisi fu connotata dall’enorme crescita del lavoro temporaneo che da allora è triplicato, passando dalle 850 mila unità ai circa 2,5 milioni attuali.

    2) Proprio in virtù di questa crescita il tasso di disoccupazione è diventato un indicatore del tutto parziale dello stato del mercato del lavoro e del tutto inutile per capire i problemi che la precarietà genera.

    3) La situazione giovanile permane grave, ma tutta la popolazione e con essa tutto il baricentro del mercato del lavoro si è spostato verso le età adulte, con le conseguenze che vedremo. Le differenze dell’attuale situazione giovanile sono condensate nella tabella 1: il numero di persone tra i quindici e i ventinove anni (riprendiamo il range di età più usuale) è passato da 13,5 a 9,6 milioni, con una diminuzione pari al 26,4 per cento ma, rispetto a questa media, sono molto diverse le tendenze dei vari comparti del mondo giovanile: le non forze di lavoro sono diminuite di più per l’incremento della scolarità, gli occupati stabili e i disoccupati si sono quasi dimezzati mentre l’occupazione precaria è più che raddoppiata. La realtà giovanile non è più la lunga attesa nella consapevolezza però che prima o poi il lavoro stabile arriverà, poco prima dei venticinque anni per i non laureati, e dei trenta per chi ha proseguito gli studi. L’attesa si è riempita di lavori e ciò ha anche cambiato i connotati della disoccupazione. In passato i giovani risultavano anche statisticamente “In cerca di prima occupazione”, adesso si tratta per la maggioranza di “Disoccupati in senso stretto” che cercano un altro lavoro dopo la perdita del precedente. Il lavoro precario c’era anche allora, ma erano lavoretti di minor durata, e non conferivano identità; il precario è una figura moderna.

    È corretto dire che nell’esperienza giovanile oggi c’è più lavoro che in passato? Osservando la tabella sembrerebbe di no. La quantità complessiva di lavoro è in verità diminuita rispetto al 1993, sia pure leggermente. In effetti abbiamo scritto “più lavori”; la distinzione può sembrare sottile, ma è sostanziale perché differenzia le situazioni di alta e bassa precarietà. In una situazione in cui c’è un’alta quota di precarietà si genera una maggiore rotazione tra lavoro e disoccupazione. Dal punto di vista del sistema ciò è del tutto ininfluente, il sistema rileva le posizioni di occupazione e disoccupazione e da questo punto di vista non fa differenza se una persona lavora tutto l’anno e un’altra rimane disoccupata o se i due soggetti si alternano di posizione, mediamente verrà sempre rilevato un disoccupato e un occupato.

    La differenza è esattamente la stessa che si verifica in un’azienda se viene posto in cassa integrazione a zero ore un numero ristretto di lavoratori o se si adotta una rotazione che coinvolge tutti. Il numero di ore non cambia. Un’alta quota di precarietà dunque non influenza il tasso di occupazione né quello di disoccupazione, semplicemente si ruota sul lavoro che c’è e su quello che manca. A parità di volume di lavoro, in una situazione di lavoro precario diffuso ci sono più persone che trovano lavoro, ma solo perché ne sostituiscono altre che lo hanno perduto; la precarietà non crea lavori, o meglio ne crea non più di quanti ne sopprime.

    Per questi motivi è del tutto artificioso mettere i disoccupati da un lato e i precari dall’altro scomponendo così una figura sociale unitaria; per un precario è del tutto casuale che la fatidica settimana di riferimento in cui viene intervistato si trovi in un periodo di lavoro o di non lavoro: è solo un limite delle attuali definizioni che obbliga a fissarne la posizione a un certo “istante”. La precarietà non è solo insicurezza del lavoro teorica; è discontinuità lavorativa reale, alternanza tra lavoro e disoccupazione. In una situazione di questo tipo, in un’ottica di medio periodo, ciò che appare come incremento della disoccupazione non significa necessariamente aumento del numero dei disoccupati, ma può significare, per lo stesso numero di soggetti, una diminuzione dei periodi di lavoro rispetto ai periodi di non lavoro.

    Vista così la precarietà appare una cosa molto democratica e in effetti lo è, ma solo se coinvolge tutti i giovani (per il momento ci limitiamo a loro) nella stessa misura e senza distinzioni. Ma se il lavoro stabile rimane un obiettivo possibile e legittimo almeno per l’età adulta, vediamo che il sistema si è complicato la vita. Se c’è un solo giovane disoccupato per un anno, il sistema dovrà creare (o aspettare che si liberi per pensionamento) un posto di lavoro stabile per soddisfarne le legittime aspettative; se ci sono due precari-disoccupati, di posti di lavoro stabili bisognerà crearne due, cosa non facile se i due “mezzi lavori” sono strutturalmente precari.

    La diffusione dei lavori precari dunque mitiga le conseguenze della disoccupazione giovanile perché permette di spartirla su più soggetti, ma il vero banco di prova sono le prospettive future di questi giovani: in che misura il sistema dei lavori riesce a offrire prospettive di stabilità in un futuro non eccessivamente lontano? In passato, fino ai primi anni 90, sappiamo che ci riusciva perché sia la precarietà sia la disoccupazione in età adulta erano molto contenute.

    Oggi si dice frequentemente che questa è la prima generazione che starà peggio di quelle precedente; ma come sta oggi veramente la generazione precedente? Il grafico 2 riporta la distribuzione delle persone in cerca di lavoro per classe di età. Come si vede la differenza è sostanziale rispetto al passato: la disoccupazione odierna non è più solamente giovanile, all’opposto è prevalentemente adulta. In passato quasi i 3/4 delle persone in cerca di occupazione erano giovani tra i quindici e i ventinove anni, oggi la quota si è ridotta al 40 per cento (vedi grafico 2).

    I dati appena riportati sembrano contraddire quanto detto in precedenza in merito alla sostanziale stabilità ciclica della disoccupazione giovanile in termini di gravità, ma è un puro effetto di prospettiva: i numeri sono gli stessi, solo che non stiamo più calcolando la gravità della disoccupazione giovanile, ma la sua estensione rispetto alla disoccupazione adulta. Guardando solo al tasso di disoccupazione specifico che dà conto della gravità del fenomeno ma non della sua estensione abbiamo un’immagine parziale e distorta del fenomeno stesso: per fare un esempio se paragonassimo i tassi di disoccupazione dei giovanissimi tra i quattordici e i diciannove anni del 2003 a quelli odierni, avremmo rispettivamente valori del 37,8 e del 40 per cento, addirittura un incremento, rispetto a una situazione già gravissima. Con la fondamentale differenza però che in passato i giovani attivi sul mercato del lavoro, in qualità di occupati o disoccupati, erano ben 870 mila, mentre oggi sono solo 270 mila, in virtù della diminuzione della popolazione giovanile e dell’incremento della scolarità.

    Ovviamente ciò non significa che non bisogna tener conto della gravità della condizione di chi a sedici, diciassette anni ha dovuto lasciare la scuola e neppure riesce a trovare un lavoro, ma a livello di diffusione sociale il problema va quantificato e circoscritto perché richiede interventi specifici. La disoccupazione è dunque diminuita in valore assoluto, ma nella sua composizione si è anche spostata verso le età adulte.

    Anche nella composizione del lavoro precario si è verificato uno spostamento simile, ma con una differenza importante rispetto alla disoccupazione: il lavoro precario è non già diminuito ma quasi triplicato (vedi grafico 3). I problemi del mercato del lavoro, nella forma della precarietà-disoccupazione, si sono dunque nettamente spostati verso le età adulte: su circa 2 milioni di disoccupati, 1,2 milioni sono adulti, così come sono adulti 1,5 milioni di precari rispetto ai 2,5 milioni totali.

    * sociologo

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