Questa scheda è spoiler-free: nel rispetto del lettore vergine della visione del film verranno isolate, nell’arco della recensione, eventuali rivelazioni critiche di trama (spoiler) su note a piè pagina, oltre a essere suggerito, a fine articolo, un indice della presenza di punti sensibili nell’opera il cui svelamento accidentale possa incidere su una sua corretta fruizione
Singolare questa pellicola dei Coen, per certi versi fuori dai canoni cui ci hanno abituati, per altri perfettamente in linea con la loro filosofia.
E’ il racconto di un uomo, professore di fisica, e delle sue disavventure, dei suoi dubbi, della ricerca interiore per affrontare ed interpretare la sorte, il senso della vita.
Intriso di ebraismo sin dall’aneddoto introduttivo, fino a traboccarne, A serious man è un film che non parte e non arriva, non per difetto, ma per scelta stilistica molto chiara. Gli eventi, in fin dei conti, non giustificano ciò che c’è prima né spingono a chiedersi cosa verrà dopo, sono semplicemente lì, scorrono autosufficienti come singoli episodi, limitandosi a definire la linea dell’opera, ma senza creare una vera storia in senso classico. Per quanto detto questo lavoro si staglia solitario nel cinema dei Coen, come una sorta di gioco altmaniano, ma da un unico personaggio, calato in un mondo assolutamente non antropocentrico, dove ‘le cose’ accadono e basta, e qualunque tentativo di spiegazione è semplicemente frustrante; ed è su quest’occasione di cinismo che, invece, ritroviamo ad operare i ‘vecchi’ fratelli, che sfruttano il soggetto per un’ennesima commedia nera, ma più virata verso l’esistenziale, a differenza dei vari Fargo o Blood Simple, ancorati in parte alla componente di genere noir-gangsteristico-poliziesca. Forse il parente più stretto di A serious man risulta essere L’uomo che non c’era, ma con necessari distinguo. Ancora una volta, infatti, si gioca tutto su un personaggio kafkiano, avvolto, trascinato, condotto da una sorte che non ha spiegazioni e che, quando pare averne, sembra obbedire più al canovaccio di uno scherzo divino che alla casualità; ma nel nostro film il protagonista, Larry, sostanzialmente finisce per accettare gli eventi, li guarda sofferente, incuriosito, però alla fine rassegnato, da vittima – terreno fertile per lo humor tipico coeniano -, un’accettazione che vorrebbe, è vero, radicare la sua giustificazione in un’idea di vita, di una religione (la ricerca dei tre rabbini), ma che dichiara negli sguardi arresi del protagonista un’autosufficienza palese. L’uomo che non c’era su questo fronte è più laico e meno filosofico, più spietato, senza speranze, oltre che più marcatamente noir in senso classico – dunque anche una storia, strettamente parlando – e più improbabile, irrealistico, ai limiti del delirio onirico. Il barbiere è vittima anch’egli, ma prova almeno una volta a non esserlo, Larry, invece, non si oppone, cerca solo una ragione di convivenza con il destino.
L’ultimo lavoro dei fratelli di Minneapolis diventa, quindi, un’applicazione del loro stile irriverente e black su una struttura cinematografica nuova, esasperando sino ai limiti dell’intellettualismo ciò che avevano lasciato fino all’anno scorso in un ambito più palesemente di genere. I risultati sono assolutamente impeccabili, la qualità formale non perde mai colpi, gli attori come al solito sono in parte anche già solo per scelte somatiche, le inquadrature manifestano spesso il gusto pregiato che ci si aspetta. Resta solo il dubbio che in questa nuova landa i Coen debbano ancora affinare maggiormente il linguaggio rischiando, altrimenti, di restare soltanto bravi artigiani anziché grandi artisti.
Un film da rivedere per ridiscuterlo.
Forse invecchiando potrebbe diventare un cult ‘underground’ per cinefili, come accadde per Barton Fink.
Voto: 7.5/10
Livello spoiler: 2/10
Saluto con piacere il tentativo per certi versi “antinarrativo” dei coen. La scritta che compare al principio, ha il fine di spiegare allo spettatore non tanto una filosofia di vita, quanto piuttosto le istruzioni per una buona e serena visione del film.