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Manfredonia, la ‘Fontana della Memoria’ tra arte, mutui e disastro Enichem

AUTORE:
Giuseppe de Filippo
PUBBLICATO IL:
8 Febbraio 2010
Manfredonia //

Torri area ex Enichem (image by G.de Filippo)
Torri area ex Enichem (image by G.de Filippo)
GRUPPO ASSIEME PER MANFREDONIA DI MATTEO MANFREDI – “La città è stanca di subire queste violenze architettoniche e clientelari. Sarà la città a decidere se vuole il monumento di Tretola (già autore della piazza Sant’Andrea, bella a nostro parere) e di altre iniziative”. “Nulla contro l’artista– dicono dal Gruppo di Manfredonia – l’opposizione sarà nei confronti di questa amministrazione del brutto. Come ad esempio “il lungomare del sole: un arlecchino cementificato ed altre orribili brutture presenti nella città“. Manfredonia ha bisogno infatti di “arte e di monumenti”, dato che “quello che oggi possono fare i cittadini è valorizzare il vecchio (evitando scempi come quello commesso alla ristrutturazione del torrione del fico) ed è per questa ragione che un gruppo di persone si è organizzato per promuovere iniziative volte ad informare l’intera città su quello che stà succedendo”. La proposta del comitato di Manfredi è quella di “indire dei concorsi ufficiali, per dare la precedenza agli artisti locali” ma anche per “non buttare via i soldi ottenuti dall’indennizzo di morti causate dalla mala politica che ha voluto un petrolchimico nelle immediate vicinanze della nostra città”. Inoltre, come se non bastasse, “quale peggiore simbolo se non quello scelto di una ciminiera, che ricorda ciò che speriamo di poter dimenticare e ricordare come uno dei tanti incidenti e stupri subiti dalla nostra terra ed a causa della nostra fame di potere”.

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IL DISASTRO ENICHEM – “SONO passati cinque giorni, ed un fine settimana, dalla sentenza sull’Enichem, pronunciata venerdì scorso a Manfredonia. (..) Era rassicurante la presenza delle donne all’interno dell’aula, mamme di figli ormai cresciuti, (..) mentre fuori si attendeva la sentenza. Siamo di nuovo qui, diceva una donna di Bianca Lancia, e vedevo il viso della signora Anna Maria Lovecchio, un po’ sorpresa ma rassicurata anche dalla loro presenza. Fuori, due dei tre figli di Anna Maria e Nicola, Vincenzo e Francesco. Mi dicono «ci volevano comprare un’altra volta». Cosa? «Sì, 135mila euro, questa volta», dice Francesco. Quel giorno non avevo chiesto alla signora Anna Maria cosa ne pensasse di questa nuova offerta, era visibilmente in apprensione. Così oggi l’ho chiamata per sentire come stesse, e sapendo di urtarla leggermente, le chiedo: «Anna Maria, le avevano offerto parecchi soldi in più questa volta?». E lei dopo un attimo di silenzio mi risponde: «Alessandro i soldi non hanno senso, l’unico obiettivo è la giustizia, e non è col denaro che si compra». ( da Carta – ‘La giustizia non si compra’ di Alessandro Langiu del 5 ottobre del 2007)

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L’ESPLOSIONE DELL’IMPIANTO PER LA FABBRICAZIONE DELL’UREA – Il polo chimico Enichem di Manfredonia cominciò a sviluppare le sue produzioni nei primi del 1971. All’interno degli impianti vi si producevano soprattutto fertilizzanti e il caprolattame (i lattami sono prodotti organici: il caprolattame è utilizzato nella produzione del nylon), da cui si ricavano fibre sintetiche. I controlli sugli scarichi e sulla sicurezza degli impianti sono stati “cronicamente inadeguati” e gli incidenti con fughe di sostanze tossiche si susseguirono a cadenza quasi regolare. Il più grave avvenne il 26 settembre 1976, quando un’esplosione all’impianto per la fabbricazione dell’urea provocò la fuoriuscita di una nube di anidride arseniosa (un gas contenente arsenico): nessun decesso diretto, ma le conseguenze si avvertirono negli anni, soprattutto tra gli ex dipendenti della ditta e la popolazione del territorio circostante. E da quel momento che Manfredonia è soprannominata la “Seveso del Sud” [Un’esplosione alla fabbrica chimica svizzera Icmesa di Meda, hinterland milanese, sprigiona una nube di TCDD, tetraclorodibenzo-para-diossina, investendo i Comuni di Seveso e Desio. Immediatamente si verificano morie di animali e le persone (soprattutto i bambini) rimangono deturpate in viso dalle irritazioni: viene mobilitato l’esercito per evacuare l’area. Negli anni successivi verrà asportato lo strato superficiale del terreno per rendere di nuovo abitabile il territorio. Gli abitanti di Seveso e Desio sono infine rientrati nelle loro case, ma ancora oggi rimangono sotto osservazione medica). Nel 1988 l’impianto dell’Enichem termina la produzione di caprolattame, dopo che i sistemi di smaltimento delle scorie furono sequestrati dalla magistratura di Otranto perché sospettati di causare una moria di delfini e tartarughe nel basso Adriatico. Il resto del polo chimico chiuse nel 1994 (elaborazione da Focus.it ).

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LE INDAGINI – Le prime indagini indipendenti per fare luce sulle conseguenze dell’incidente del 1976 furono avviate a fine anni Novanta su iniziativa di un caporeparto della Enichem, Nicola Lovecchio. A Lovecchio, nel 1993, gli (un fertilizzante) venne diagnosticato un tumore polmonare, tumore che l’oncologo Maurizio Portaluri (medico del capo-reparto Enichem) mise in relazione con il lavoro, svolto dall’operaio, al petrolchimico di Manfredonia. Da questo punto in avanti, Nicola Lovecchio decise di approfondire le cause che portarono all’avvenimento del fatto, “dedicando in questo modo tutto se stesso per ricercare una verità finale”. Lovecchio, a causa del tumore, morì nel 1997, ma le ricerche dell’uomo non furono, con certezza, vane: proprio dalle denunce di Lovecchio partì infatti il processo contro gli ex dirigenti Enichem, accusati della morte di ben 17 operai.

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IL PROCESSO: “IL FATTO NON SUSSISTE: “Stamattina, alle 12, a Manfredonia il giudice monocratico, dottoressa Valente, ha pronunciato la sentenza di primo grado del processo alla Enichem . I dirigenti della multinazionale sono stati assolti perché «il fatto non sussiste». Il processo era iniziato da un esposto, nel 1996, alla Procura di Foggia, da parte di un operaio. Nicola Lovecchio. E dell’oncologo Portaluri, a seguito delle indagini e ricerche che avevano svolto. Il pubblico ministero Lidia Giorni, dopo cinque anni di indagini e riscontri, riuscì poi a far iniziare il processo. Nel 2001 prendono avvio le udienze, fitte di testimonianze e periti che ricostruiscono i fatti. Il capo d’imputazione è grave: omicidio colposo plurimo motivato dall’esposizione all’arsenico dei lavoratori dell’Enichem. Nel 1976 era scoppiata la colonna di lavaggio dell’ammoniaca, all’interno della quale erano contenute tonnellate di arsenico. Nell’immediato non fu resa chiara la gravità dell’incidente, e le operazioni di bonifica partirono con dieci giorni di ritardo. Gli operai e tutti gli addetti dell Anic andarono a lavorare regolarmente anche il giorno dell’incidente. Gli operai furono impiegati anche nelle operazioni di bonifica senza le dovute cautele. Ma soprattutto non furono informati precisamente sul rischio. Fu solo in seguito, a causa di valori di arsenico nelle urine elevatissimi, che iniziarono per loro i periodi di malattia. Nel processo, gli operai che si sono costituiti parte lesa furono 23, molti dei quali, oggi, deceduti o ammalati di tumore. Il processo è andato avanti in questi anni, con la signora Lovecchio, la vedova dell’operaio che ha denunciato tutto, in silenzio ad ascoltare, in aula, insieme ai parenti degli altri operai. Il processo di primo grado è durato sei anni, per le numerose perizie fornite da consulenti del pubblico ministero, e le contro-perizie dell’Enichem. Perizie che hanno cercato di far luce sui materiali impiegati nella produzione, i sistemi di sicurezza, ma soprattutto sull’esposizione all’arsenico e polvere di urea. Ma se la scienza è d’accordo, in maniera unanime, sulla natura cancerogena dell’arsenico, altrettanto non è per i periti dell’Enichem. I quali hanno anche ipotizzato, nel corso del processo che l’eccessivo tasso di arsenico nelle analisi fatte agli operai, non fosse legato all’esplosione né, tanto meno, ai processi produttivi, bensì alle loro abitudini alimentari. Un elevato consumo di crostacei e soprattutto di gamberi, hanno detto, è la causa dell’elevato tasso di arsenicure. Elevato consumo che secondo i periti dell’accusa si quantificherebbe in un chilo giornaliero, più meno. Di sicuro la spesa abituale per ogni operaio. Le ultime udienze sembrano esser state. Il giudice Valente nel maggio scorso nomina due superperiti: uno di dell’Universià di Napoli, l’altro di Salerno, ma con la peculiarità di essere padre e figlia. La perizia si è basata solo sugli atti forniti dall’Enichem, e non su quelli forniti dai consulenti del pm e degli avvocati dell’Accusa. Il risultato è immaginabile. Ulteriore svantaggio, le proposte di patteggiamento alle famiglie, costituitesi anche parte civile. Molte hanno accettato somme tra venti e settantacinquemila euro, a seconda del grado di parentela. La vedova Lovecchio e pochi altri hanno rifiutato. Di recente hanno patteggiato anche altre parti civili: I comuni di Manfredonia, di Mattinata e Monte Sant’angelo. A «guadagnare» di più è stato il comune di Manfredonia: 300 mila euro. Oggi, in un’aula gremita di persone come non se ne erano viste per anni, il giudice ha pronunciato la sentenza: tutti assolti perché il fatto non sussiste. Parole cadute, dopo due ore di attesa, nel silenzio più completo”, conclude Langiu. (Alessandro Langiu , da Carta – ottobre 2001). Nel 2008 i familiari di Lovecchio decisero di ricorrere in appello sostenuti da Medicina Democratica. Da segnalare delle ricerche negli ultimi anni di un gruppo di cittadini, tra i quali Giulio Di Luzio, autore del libro I fantasmi dell’Enichem: «Abbiamo raccolto la testimonianza di una donna che nell’agosto 1980 mise al mondo un bambino con il fegato praticamente liquefatto», dichiara Di Luzio. «I medici non riuscirono a spiegare il fatto, ma è possibile che la causa possa essere stata l’esposizione a una nube di ammoniaca fuoriuscita dagli impianti in un incidente avvenuto il 3 agosto 1980, mentre la donna era negli ultimi giorni di gravidanza» (elaborazione da Focus.it).

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LE MOBILITAZIONI CITTADINE – Fra le prime a mobilitarsi, per far luce sulla vicenda, le donne di Manfredonia, soprattutto l’associazione ‘Bianca Lancia’ che nel 1988 riuscì a portare il caso della contaminazione di Manfredonia alla Commissione per i Diritti dell’Uomo a Bruxelles. Nel 1998 la stessa Comissione riconobbe un risarcimento per 40 madri vittime della contaminazione. Dallo stesso anno, Manfredonia è inserita tra i siti contaminati di interesse nazionale. Nel 2007 l’area industriale risultava bonificata per il 12% e per il 55 % risultava approvato il progetto definitivo.

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