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TANGENTI ‘Nascosero le prove’, 8 mesi ai pm De Pasquale e Spadaro

La vicenda risale agli anni in cui De Pasquale e Spadaro conducevano l'indagine sul presunto pagamento di tangenti

AUTORE:
Redazione
PUBBLICATO IL:
9 Ottobre 2024
Attualità // Prima pagina //
Roma. Il processo che ha visto imputati i pubblici ministeri milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro si è concluso a Brescia con una condanna a 8 mesi di reclusione per rifiuto di atti d’ufficio. I due magistrati, protagonisti dell’inchiesta Eni/Shell-Nigeria, sono stati ritenuti responsabili di non aver presentato elementi favorevoli alla difesa nel corso del processo, che si era chiuso con l’assoluzione di tutti gli imputati.

La vicenda risale agli anni in cui De Pasquale e Spadaro conducevano l’indagine sul presunto pagamento di tangenti per l’acquisizione del giacimento petrolifero OPL245 in Nigeria, un caso che aveva coinvolto i vertici di Eni e Shell. Nel corso delle indagini, i due pm avevano valorizzato le dichiarazioni di Vincenzo Armanna, ex manager di Eni, come una delle prove principali a sostegno delle accuse di corruzione internazionale. Tuttavia, secondo l’accusa, De Pasquale e Spadaro avrebbero omesso di segnalare alcune informazioni emerse successivamente, che mettevano in discussione la credibilità di Armanna, fino ad arrivare a sospetti di corruzione nei suoi confronti. Questi elementi, se presentati in giudizio, avrebbero potuto influenzare l’esito del processo, che si era comunque concluso con una sentenza di assoluzione per gli imputati.

Il Tribunale di Brescia, presieduto dal giudice Roberto Spanò, ha riconosciuto la colpevolezza dei due magistrati, concedendo però le attenuanti generiche e disponendo la sospensione condizionale della pena, nonché la non menzione nel casellario giudiziale. Inoltre, il risarcimento danni alla parte civile, Gianfranco Falcioni, ex vice console onorario in Nigeria, sarà deciso in sede civile. Il Tribunale ha stabilito che il risarcimento sarà pagato in solido con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, mentre le spese legali, pari a 8.000 euro, sono state poste a carico dei due pubblici ministeri. Esce dal procedimento, invece, il Ministero della Giustizia, che era stato chiamato come responsabile civile.

La Procura di Brescia, che aveva chiesto una condanna analoga a quella poi inflitta, aveva tuttavia proposto di non concedere la sospensione condizionale della pena, citando il pericolo di recidiva. Secondo la Procura, i due pm avevano volutamente evitato di presentare le informazioni che avrebbero potuto danneggiare la loro linea d’accusa. Nella loro requisitoria, i pubblici ministeri di Brescia, Francesco Milanesi e Donato Greco, insieme al Procuratore Francesco Prete, avevano sottolineato come la legge imponga ai pm di non selezionare le prove, ma di depositarle tutte, anche quelle potenzialmente favorevoli alla difesa. La mancata presentazione di questi atti, secondo i giudici, aveva leso il diritto alla difesa degli imputati nel processo Eni/Shell.

Dopo la lettura della sentenza, i due magistrati milanesi non erano presenti in aula. Il loro avvocato difensore, Massimo Dinoia, ha espresso preoccupazione per le conseguenze di questa decisione, definendola “un precedente pericoloso”. Dinoia ha sottolineato come la sentenza metta in discussione l’autonomia delle scelte processuali dei pm, i quali, secondo il legale, potrebbero sentirsi obbligati a depositare tutti gli atti, anche quelli che non ritengono rilevanti, rischiando di subire condizionamenti esterni. Ha inoltre ribadito l’intenzione dei suoi assistiti di fare appello contro la sentenza di primo grado.

Di diverso avviso l’avvocato Pasquale Annicchiarico, legale di Gianfranco Falcioni, il quale ha accolto favorevolmente la decisione del Tribunale di Brescia. “È una sentenza giusta”, ha dichiarato, sottolineando come i pubblici ministeri, al pari dei giudici, siano tenuti a rispettare il principio di trasparenza e a non nascondere prove che potrebbero favorire la difesa. Anche l’avvocato Filippo Schiaffino, che ha assistito Falcioni insieme ad Annicchiarico, ha espresso soddisfazione per il verdetto, affermando che i pm devono rispettare gli obblighi di legge e non possono decidere autonomamente cosa presentare o meno in un processo.

Il caso ha attirato molta attenzione, non solo per il calibro degli imputati e la rilevanza del processo Eni/Shell, ma anche per le implicazioni che la sentenza potrebbe avere sul ruolo e sulle responsabilità dei pubblici ministeri in futuro. La questione centrale riguarda il bilanciamento tra l’autonomia dei pm nelle loro scelte processuali e l’obbligo di trasparenza e di tutela del diritto alla difesa.

Secondo l’accusa, tra febbraio e marzo 2021, De Pasquale e Spadaro avrebbero omesso di comunicare al collegio giudicante e alle difese informazioni rilevanti riguardanti Vincenzo Armanna, informazioni che avrebbero potuto minare la credibilità del grande accusatore. Questi dati erano stati portati alla loro attenzione dal collega Paolo Storari, il quale era stato successivamente assolto in relazione a un altro filone di indagini riguardante l’Eni. De Pasquale, nel frattempo, era stato retrocesso dal suo ruolo di procuratore aggiunto a semplice pm dal Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) nel maggio 2021, in seguito all’emergere di queste problematiche.

Nel corso del dibattimento, De Pasquale e Spadaro hanno sempre negato ogni accusa, sostenendo di non aver mai intenzionalmente occultato prove favorevoli alla difesa e di aver agito nel pieno rispetto delle loro funzioni. I due magistrati, considerata la condanna in primo grado, presenteranno ricorso in appello nella speranza di ribaltare il verdetto.

Le motivazioni della sentenza verranno depositate entro 45 giorni, e sarà interessante osservare come il Tribunale di Brescia avrà giustificato la propria decisione, in attesa del secondo round giudiziario che si preannuncia altrettanto complesso e delicato.

Lo riporta l’ANSA.

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