Foggia – L’ESPRIMERE giudizi, anche forti, nei confronti di una persona, confidandoli però ad un terzo, senza che altri o la vittima possano sentirli, non è considerato dalla legge un reato. Se il messaggio è rivolto ad almeno due persone – anche se non presenti contestualmente – si ha il reato di diffamazione (per es.: Tizio discute con Caio e Sempronio, parlando male di Muzio).
Se invece il messaggio è trasmesso alla presenza del soggetto interessato, allora si ha ingiuria (per es.: Tizio parla con Caio e, durante la discussione, gli rivolge una serie di insulti). Se infine Tizio discute con Caio e, nel corso della discussione, parla male di Sempronio, e Sempronio non è presente o comunque non sente, egli non commette alcun reato.
L’ingiuria – quando cioè l’offesa viene fatta in presenza della vittima- può ben essere realizzata anche attraverso una frase rivolta ad un terzo soggetto, purché la vittima medesima riesca in qualche modo a sentire l’espressione. “Digli di andare a fan…” è il classico esempio.
Mettiamo, cioè, che Sempronio riesca casualmente a percepire l’
offesa. Così è successo nel caso sottoposto all’attenzione del Giudice di Pace di Brindisi: una persona parlava male del collega di lavoro ad un altro collega e, proprio mentre pronunciava l’offesa, l’interessato si è affacciato nella stanza, percependo tutto il discorso. Ebbene, il dubbio è se questa espressione, pur se non rivolta al destinatario, possa essere considerata una “ingiuria” e quindi costituisca reato.
L’interpretazione data dal Giudice di Pace di Brindisi è nel senso di punire l’incauto irriverente che non aveva “chiuso la porta”. ( così G.d.P. Brindisi, sent. n. 110/2012)
In sintesi : “in camera caritatis” tutto è consentito. Ma guai se i muri hanno orecchie!!!
(A cura dell’avv. Eugenio Gargiulo)