I bambini non hanno ancora imparato a fingere e, posti davanti alla morte, non sono abituati a metterla da parte, a rimuoverla. Oggi la morte si presenta in un contesto profondamente mutato dal passato.
Il film “Vermiglio”, premiato a Venezia e candidato agli Oscar, apre uno scorcio sul passato. Ci avviamo alla fine del secondo conflitto mondiale. La guerra è fuori campo, ma c’è. Nel piccolo paese montano di Vermiglio la morte è una costante. I figli dormono insieme, in un unico grande letto, prima di dormire sussurri, segreti, si confrontano sulle grandi cose della vita, non riescono a capirle ma colgono gli aspetti importanti. La morte non riesce a intaccare lo svolgersi della vita: la vacca da mungere, la capra da portare al pascolo… Dopo la morte del fratellino di pochi mesi, il più piccolo chiede al maggiore: “E’ andato in cielo con le ali?”. “No. con l’anima”. “Che roba è?”. “Non lo so”. Un bambino muore, “ma si può ‘comprare’ un altro”, dice il medico. La morte ritorna in forme diverse: l’avvicendarsi delle stagioni, le semine, i raccolti, la natura muore e rinasce, la morte degli animali… Oggi nelle case c’è la presenza di animali domestici, ed è frequente la morte del gattino, del cane… Un conoscente mi ha detto che ha dovuto chiedere a un amico un angolo in campagna per seppellire il cagnolino di sua figlia.
Ai bambini la morte non crea turbamento. Sono altre le domande. Si vorrebbe che muoia prima chi è nato prima, magari “sazio di giorni”, ma questo spesso non avviene, essi però non si lasciano consolare dal detto greco che “muore giovane chi è caro al cielo”.
Nel mondo contadino non si parlava della morte. C’era, e basta. Oggi abbiamo una organizzazione sociale per allontanarla. Una grande assistenza, per cancellare il più rapidamente possibile lo spettacolo della sofferenza. Nella fretta di esistere gli uomini eludono il mistero più grande, nascondono la morte. Nei secoli passati era vista come severa maestra di vita, dilagavano immagini che la richiamavamo continuamente. Questa concezione è stata bandita nei tempi odierni per lasciare il posto non a un modo più sereno di pensare la morte, ma alla sua rimozione. Non si accettano formule e riti convenzionali del passato: segno esteriore del lutto era la veste nera e c’erano donne che la indossavano a 30 – 40 anni e la tenevano per tutta la vita. Mancano nuovi rituali che riflettano l’attuale standard del sentimento e del comportamento e che possano permettere di superare situazioni emotive critiche.
E’ importante parlare della morte ai bambini? Significa parlare della vita. Per ognuno di noi, sapere che resteremo quaggiù per un tempo limitato e che la vita ha un termine, può essere uno stimolo “a contare i giorni e a farli contare”.
Ci sono dei posti che aiutano a parlare della morte. Nei recenti scavi di Siponto i bambini in particolare mostrano curiosità per vedere le tombe ritrovate. I luoghi dei disastri naturali ci ricordano che anche la morte collettiva è fatta, in realtà, di morti individuali. Due studiosi italiani, docenti di letteratura classica negli Usa, hanno raccontato un’interessante esperienza a Pompei (“un buon posto per guardare in faccia la morte”) con i bambini, che fanno mille domande e scoprono le questioni essenziali. Non si tratta di rassicurare, ma dire semplicemente come stanno le cose. Ci sono persone che non vanno al cimitero o ci vanno solo in compagnia. Eppure i cimiteri sono luoghi per guardare in faccia la morte e ci ricordano che “la morte sono i morti”. Ciascuno con un volto, con il proprio nome.
Molte domande restano senza risposte. E sono le morti provocate, quelle individuali (femminicidi) e quelle collettive. Si deve affrontare il problema del “male”, della guerra, degli eccidi. Si devono fare anche i conti con la diversa valutazione dei morti. Quante morti ci sono state per pareggiare quelle delle torri gemelle? E quante saranno quelle del cambiamento climatico? Quante morti ancora a Gaza?
E quante sono le stragi sconosciute? “Non dico addio“, l’ultimo libro di Han Kang, premio Nobel 2024. Un massacro in Corea del Sud. Un’isola dove sono trucidati 30.000 potenziali comunisti tra la fine del 1948 e 1949. Il romanzo racconta la storia di tre donne che rifiutano di dimenticare, di dire addio e troncare il legame con chi non c’è più. In Giappone è ricordata più la seconda bomba atomica. Seppure la prima (Hiroshima) era necessaria per far terminare la guerra e mostrare al mondo la nuova arma… perché la seconda, perché Nagasaki?.
fonte futuriparalleli.it