Era il 1999 quando la Corte di Cassazione annullò la condanna di stupro ad un istruttore di scuola guida di Potenza, assolto con formula piena, perché la donna, vittima di abuso, in quell’occasione indossava i jeans, per il tribunale un capo d’abbigliamento difficile da sfilare senza “la fattiva collaborazione di chi lo indossa”.
Passò alla storia come la “sentenza dei jeans” e procurò certo non poco scalpore, chiaro che mancasse la condizione del “valido consenso” che però non venne tenuta in considerazione durante il processo.
Andando più avanti nel tempo, siamo nel 2006, quando l’ennesima sentenza ai danni di una donna fece discutere. I giudici concessero l’attenuante ad un uomo che aveva violentato una ragazza non vergine. L’assioma, secondo un loro ragionamento logico (?), poneva le sue basi sul concetto che abusare di una ragazza che già aveva avuto dei rapporti sessuali in precedenza, generasse un trauma meno violento.
Arriviamo ai giorni nostri, dove gli scivoloni di una giustizia garantista, che offende totalmente l’universo femminile, trova traccia nella sentenza choc della Corte di Cassazione che non ha concesso nessuna aggravante ad uno stupro di gruppo, dove due uomini di cinquant’anni, dopo una cena con una ragazza, in evidente stato d’ebrezza per colpa del vino, l’hanno portata in camera da letto, spogliata e violentata.
La donna, solo il giorno dopo, ricostruendo i fatti, recatasi al pronto soccorso, aveva raccontato l’accaduto.
Assolti nel 2011in primo grado dal gip di Brescia, solo nel 2017 si è potuto valutare diversamente il referto medico, avendo, la Corte d’Appello di Torino, riscontrato “leggeri segni di resistenza”, condannando i due uomini a tre anni “con le attenuanti generiche e l’aggravante”. Ma per la terza sezione penale: “Lei ubriaca? Niente aggravanti”.
Giocare al ribasso della pena, ai danni della vittima, con la motivazione che in natura trova la sua complicazione nel concetto assurdo che in caso di violenza carnale, l’alcol debba essere imposto contro la volontà della persona abusata per far sì che le aggravanti siano postulato, perché “l’uso volontario, incide si sulla valutazione del valido consenso, ma non anche sulla sussistenza aggravante”.
In questo caso specifico anche la donna aveva bevuto.
Ma questo non fa una piega, perché da che mondo è mondo, nei reati di stupro la giustizia non dovrebbe spostare il suo focus sulla vittima, come delle volte accade, partendo dal concetto principale che chi viene abusata deve essere anche tutelata. La giustizia, quando diventa garantista, in questi contesti, offende totalmente la donna. Se solo le toghe capissero, prima di emettere sentenze, gli strascichi che portano con sé queste storie, fisici e psicologici che saranno marchio dell’anima per sempre e non c’è Freud e Jung che tenga, superare un abuso e andare oltre la vergogna è tutti gli strascichi che lascia.
Nel giudicare questi reati bisognerebbe forse immedesimarsi e pensare che al posto dell’abusata ci potrebbe essere un’amica, una mamma, una figlia, una fidanzata, semplicemente una persona indifesa che sta chiedendo giustizia, la sua.
A cura di Francescapaola Iannaccone