L’alimentazione, il mangiare, il cibo, sono la base della nostra vita. Non esiste essere umano al mondo che per il proprio sostentamento non abbia bisogno di cibo. Per avere la carica energetica e quel complesso di vitamine e proteine che servono per mantenere in vita e funzionante il proprio organismo. Ma ci siamo mai chiesti alle conseguenze della produzione di alimenti sulla sostenibilità ambientale? Spesso, infatti, quando acquistiamo un alimento non pensiamo a quanto impatta sull’ambiente in termini di energia per produrlo, dispendio di acqua, lavoro e inquinamento ambientale. Per farlo, prendiamo come riferimento l’alimento degli alimenti: ossia il pane.
Il pane nelle sue infinite varianti è l’alimento in assoluto più diffuso al mondo. Le statistiche ci dicono che lo mangia l’80% della popolazione mondiale. Potremmo quasi dire che il pane è l’elemento alimentare che unisce il mondo. Nella sua semplicità è una miscela (un impasto) a base di farine di grano tenero (o grano duro) e acqua. In alcune ricette si aggiunge il sale, a volte il lievito. Il pane italiano comune, con sale e lievito, è un alimento assai energetico: circa 273 calorie per 100 gr di prodotto. E dall’elevato valore nutrizionale. I dati medi per 100 grammi di prodotto ci dicono che contiene 8 g di proteine, 0,5 g di lipidi, 63 g di carboidrati, 55 g di amido, 2 g di zuccheri solubili, 3,8 g di fibre, 0,7 mg di ferro, 17 mg di calcio, 77 mg di fosforo, 293 mg di sodio, 0,06 mg di vitamina B1, 0,06 mg di vitamina B2, 0,8 mg di vitamina B3.
Il grano è il cereale più diffuso al mondo, presente praticamente in tutti i continenti. La sua produzione è destinata essenzialmente per il 70% circa all’alimentazione umana, e per il 20% circa a quella animale. Negli ultimi anni la produzione mondiale di frumento si è collocata tra 700 e 750 Mt (milioni di tonnellate). Pari al 35% circa della produzione cerealicola mondiale. Secondo i dati sul raccolto del 2021 la Cina, con circa 137 Mt, è il principale produttore al mondo. Seguita dall’India (110 Mt), dalla Russia (75 Mt), dagli Stati Uniti (46 Mt) e dalla Francia (38 Mt). I principali esportatori sono invece la Russia (34 Mt), gli Stati Uniti (24 Mt), l’Australia (23 Mt), l’Ucraina (23 Mt) e il Canada (17 Mt). L’Unione europea, da parte sua, esporta complessivamente circa 33 Mt circa di grano.
La produzione italiana era decisamente alta negli anni Settanta (tra 7 e 9 Mt), ma successivamente è andata via via calando. Il motivo principale di questo calo è stato la riduzione di superficie coltivata, passata da circa 3 milioni di ettari degli anni Sessanta agli attuali 0,5 milioni. Oggi la produzione di frumento tenero italiano si attesta stabilmente su livelli di circa 3 Mt, un quantitativo decisamente basso rispetto alla richiesta nazionale di circa 5,7 Mt. Motivo per cui il nostro paese ne importa ogni anno circa 2,7 Mt, creando così una dipendenza ormai strutturale dalle produzioni estere. Le importazioni più consistenti avvengono da Francia, Germania, Austria e Ungheria. Oltre che da Stati Uniti e Canada. Ma per produrre grano vi sono tutta una serie di problematiche che hanno un impatto sulla sostenibilità ambientale. Il nostro Paese, come già detto, ha sempre avuto una forte tradizione cerealicola. In passato era molto diffusa la monocoltura dei cereali e in modo particolare del grano, distinto in due blocchi geografici: il Nord era vocato alla produzione di grani teneri mentre il Sud a quelli duri. Nel Sud Italia si registrava una fortissima propensione alla sua produzione in Puglia. E in modo particolare nella zona del foggiano, denominata il “granaio d’Italia”. Ma la monocoltura prolungata, negli anni, ha prodotto più danni che benefici. Tanto che adesso anche l’Unione europea è corsa ai ripari.
Solo per citarne alcuni basti considerare la cosiddetta stanchezza del terreno. O anche un fattore poco conosciuto come la desertificazione. O ancora, e questo è un problema che interessa di più i produttori americani, l’accumulo di glifosato. Proviamo a vederli nello specifico. Partiamo dalla stanchezza del terreno: nel termine si potrebbe già comprendere che siamo di fronte a un decadimento produttivo, ma limitarsi a questa spiegazione sarebbe riduttivo. L’impatto di questa condizione del terreno sulla sostenibilità è pesantissimo. Infatti, la cosiddetta stanchezza determina uno sconvolgimento dal punto di vista strutturale e biochimico del suolo, con una conseguente riduzione produttiva. Dal punto di vista strutturale la stanchezza determina una perdita di porosità del suolo, con una drastica riduzione nel contenuto di sostanza organica. La riduzione di porosità determina minori scambi gassosi con l’atmosfera e, di conseguenza, anche ristagno idrico con potenziale incremento dell’acidificazione del suolo e l’alterazione dei normali cicli biologici. L’agricoltore in questi casi interviene con lavorazioni del terreno più intense, generando l’effetto del cane che si morde la coda, con un aumento vertiginoso dei costi, dell’inquinamento e un’ulteriore destrutturazione del terreno e degradazione spinta della sostanza organica (la vita del terreno). Ovviamente a tutto questo si aggiunge lo squilibrio biologico, con progressiva morte degli organismi utili (ad esempio lombrichi) e l’instaurarsi di organismi dannosi (esempio i nematodi).
Un altro problema è rappresentato della desertificazione” In questo caso la radice etimologica della parola potrebbe portare confusione. A chiunque viene in mente il deserto, l’assenza di acqua, ma dal punto agronomico non è così. Infatti per desertificazione si intende la progressiva salinizzazione degli strati superficiali di terreno, salinizzazione che rende i terreni non più coltivabili. Questa condizione è molto diffusa e in continua espansione, ma al tempo stesso è fortemente sottovalutata da parte di chi dovrebbe dare indirizzi politici al settore. Stiamo assistendo infatti a una progressiva perdita di terreni coltivabili che, anche in presenza di risorse idriche, diventano improduttivi. Ultimo, ma non ultimo, il problema dell’utilizzo abnorme di glifosato, diserbante largamente diffuso in agricoltura e che in diverse zone del pianeta è utilizzato senza nessun criterio logico. Per esempio nel continente americano, dove viene usato anche per far maturare il grano per la mietitura. Il glifosato è un diserbante che si accumula nel terreno e sul quale molti studiosi pongono dubbi assai leciti. E ci sono tanti altri fattori che impattano sull’ambiente e sulla sostenibilità. Come l’utilizzo di trattori diesel dalle potenze esagerate, che consumano grosse quantità di carburante, e di concimi chimici. Ormai quelli organici sono un vago e lontano ricordo. Tutti fattori che incidono pesantemente e che vengono largamente utilizzati per ottenere grandi produzioni.
Voglio chiudere questa breve analisi con una frase che mi disse un mio vecchio professore all’Università. Nello spiegare a noi studenti quale fosse la funzione e l’apporto del dottore in agraria sul sistema agricolo, ci disse: «Un buon agronomo non è colui che fa ottenere a una coltivazione la massima produzione. Ma è colui che con la propria direzione tecnica permette a un’azienda di avere la produzione migliore con il minor dispendio di energie e fattori di produzione». A mio avviso questa frase, sentita oramai tanti anni fa, è ancora la chiave di volta attraverso cui si dovrebbe (r)innovare l’agricoltura. Perché non ha senso produrre sempre di più e allo stesso tempo distruggere l’ambiente e sprecare risorse economiche, riducendo anche il profitto aziendale. La cosa migliore è produrre il giusto, ottimizzando i fattori di produzione e preservando quel fattore che è la vita, ossia l’ecosistema. Distruggere l’ambiente significa distruggere noi stessi e il nostro futuro. Da oggi in poi spero che quando guarderemo il pane lo faremo con occhi diversi, e che magari non lo lasceremo invecchiare per poi buttarlo via. In quel pezzo di pane c’è una parte di salvezza del nostro pianeta.
L’alimentazione è il tema al centro dell’ultima giornata di FestiValori, domenica 20 ottobre a Modena. Si comincia alle 11:00 al Teatro San Carlo con il panel “Agricoltura e clima: è la stessa crisi”, per poi parlare di cibo mangiando da Roots, ristorante che è anche un progetto di inclusione sociale e lavorativa di donne migranti.
di Daniele Calamita – Agronomo, Sindacalista, Esperto di politiche sociali