Manfredonia, 20 dicembre 2018. Un tempo, nel periodo che precedeva il Natale, le massaie sipontine preparavano (ora in forma minore) i dolci caserecci per le festività.
Nel secolo scorso, le vicine di casa, che erano solite chiamarsi tra loro “cummé” comara, quando si recavano presso la drogheria di Viscardo Guerra a comprare gli ingredienti per la preparazione dei dolci natalizi erano solite dire tra loro: ”Uì cummé, so jute a fè nu poche de spose da Vecenzùne Vescarde ammizza chiazze, pecchè ja fè duje ‘mbrignele pi uagnune”. Era un modo di dire, perché i dolci si approntavano per tutta la famiglia e si offrivano anche ai vicini di casa. A tal riguardo, sicuramente una volta era più forte il sentimento di fratellanza fra le persone. Per le strade si sentiva un effluvio inebriante che usciva dalle case in particolare dai “sutténe” (abitazioni a pianoterra) dove si approntavano le leccornie per le festività natalizie. Ma l’odore più forte era quello che usciva dai forni a legna, dove si infornavano e sfornavano, oltre al pane, i dolci preparati in casa, quali: “taralle”, “scavetatille”, “taralline pu vine”, “puperéte”, “cangèlle” ed altri dolci.
Ricordo a casa di mia madre, povera donna, non solo doveva accudire otto figli e marito, ma nel periodo che precedeva il Natale, si alzava alle tre di notte per preparare prima di tutto l’impasto per la produzione del pane “i skanéte de pene”, utilizzando farina di grano duro, acqua calda, sale, patate lessate ridotte in poltiglia e il lievito madre. La lavorazione della pasta si teneva nella “fazzatore” che era una madia a forma di cassone.
Dopo circa un paio di ore, la massa impastata messa a lievitare, veniva sistemata con porzioni di 4-5 kg in canestri per il trasporto al forno per la cottura. Mia madre, sempre nelle prime ore del mattino preparava anche la pasta per le pettole, che metteva a lievitare sotto una coperta. Completato questo lavoro, si dedicava, aiutata dalle mie sorelle più grandi, alla produzione dei dolci utilizzando ingredienti vari posti sopra “u tavelire” (una spianatoia di legno, attrezzo da cucina utilizzato tuttora per approntare la pasta casereccia). I dolci prodotti venivano posti in grosse teglie di zinco dette in loco “i ramòre”, che noi ragazzi portavamo al popolare forno a legna di “Zappetèlle” (Ciociola) che operava vicino la casa dei miei genitori a Monticchio. Era usanza, nella nostra comunità, che alcuni fornai, dopo la cottura delle leccornie natalizie erano soliti fare “a nzògne” trattenere due o tre dolci per loro di ogni cliente.
Poi provvedevano, dietro compenso, con la loro carretta trainata da un asino o utilizzando grosse tavole portate sulla testa a consegnare a domicilio, oltre al pane “i pagnòtte de pene” fatto in casa, anche “i mbrìgnele” i dolci preparati in casa portati al forno per la cottura. Era consuetudine, sempre dei fornai, quando arrivavano i cesti contenenti la pasta per la cottura del pane, infarinata e avvolta in panni, prima di infornarla prendere per loro un pezzetto “na pettele” da ogni cesto. Tra i dolci natalizi che le nostre mamme e nonne preparavano e che tuttora approntano, anche se oggi in forma minore, ricordiamo: “i pettéle” (le pettole), “i scavetatille” (scaldatelli), “i bbuschettine”(biscottini), “i cavezungille”(calzoncelli), “i nannarille”(i nanerelli), “i cartellete” (le cartellate, farcite con mandorle tostate e vin cotto o con miele), “i puperéte” (poperati, fatti con farina, miele o vin cotto e chiodi di garofano.), “ostjachione” (ostie ripiene), “i mènel’atterréte” (mandorle caramellate, con zucchero o con cioccolato), “i taralline pu vine” detti anche “i mbraichille” (tarallini con il vino), “i taralle nirje pu venecutte”(taralli neri con vincotto), ”i pastarèlle” (pasticcini), “i cangèlle” (varietà di scaldatelli), “i bbecchenòtte” (bocconotti ), “i crustete” (le crostate farcite con marmellata di albicocche o di prugne preparate in casa).
Era altresì, tradizione nella comunità sipontina, che molte mamme per accontentare i propri figlioletti che non avevano giocattoli, creavano con la pasta avanzante del tarallo nero “a pupe nerje” (tarallo a forma di bambola per le femminucce), “u cavallocce”, “u carabbenìre” e “u uagnone”(tarallo a mò di cavalluccio, di carabiniere e di bambino, per i maschietti). Un’altra antica leccornia natalizia che si preparava a Manfredonia era “i scarol’a vvinde” (una sorta di chiacchiere, preparate con farina uova e zucchero) che si mangiava a tavola dopo il pranzo di Natale. In alcune famiglie sipontine vige ancora l’usanza di consumare questo dolce il giorno di Natale. Un’altra consuetudine in disuso da tempo in loco, quando si friggevano le pettole in casa alla vigilia delle feste di Santa Concetta e di Santa Lucia, era di prendere un pezzetto di quella pasta lievitata tenuta al coperto per ore “nda scafarole” e appiccicarla al muro.
Il gesto significava “a grasscie pa sanda jorj’a chese” un gesto benevolo simbolico nei riguardi dello spirito benigno protettore della casa. Il pezzetto di pasta andava rimosso a conclusione della friggitura delle pettole. Un altro antico rito, che mia madre (da generazioni famiglia manfredoniana) esercitava prima della frittura delle pettole, era quello di mettere di lato nella friggitrice una piccola pietra benedetta di S.Michele.
La pietra di S.Michele, diceva mia madre, la proteggeva dall’olio bollente. Completata la frittura delle pettole, “a prote de San Mecòle” veniva tolta dalla friggitrice, pulita, asciugata e conservata in casa sempre nello stesso posto. Questo antica usanza della pietra di San Michele, veniva altresì praticata un tempo anche in alcuni paesi garganici.
Tra le leccornie di Natale l’utilizzo del vin cotto “u venecùtte” preparato con fichi d’India maturi. Il miglior vin cotto è senza dubbio quello preparato con i fichi d’india raccolti nel mese di novembre allorquando, questo gustosissimo frutto, raggiunge la massima maturazione. Un altro modo di produrre il vin cotto è quello approntato cuocendo a fuoco lento insieme fichi e fichi d’India. Nel nostro agro, in particolare nelle zone collinari, dove era coltivato il carrubo, le nostre massaie utilizzando le carrube mature “i fajinèlle” preparavano un ottimo vin cotto che utilizzavano per la preparazione dei dolci natalizi.
Infine, era usanza (ora in forma minore) dei nostri contadini preparare in campagna o in casa la mostarda “a mustarde”, utilizzando l’uva matura. Era in loco, altresì tradizione, approntare in casa prima di natale i rosoli, dei quali ricordiamo: “u lemungine” (preparato con bucce di limone non maturo e alcool puro); il nocino (preparato con le noci fresche); “u resòlje pi fronne de làure” (rosolio con le foglie di alloro) e “u resòlje pi fronne d’aulive” rosolio con le foglie di olivo. Altri sciroppi, sempre nel nostro agro in particolare in (zona Montagna) venivano preparati con i chicchi del melograno e con il mirtillo.
Va comunque precisato che alcuni dolci prodotti nella nostra tradizione (come i dolci pugliesi) sono di origine araba. Tant’è che gli ingredienti e gli aromi utilizzati per la nostra “cartellata” sono simili a quelli usati nella “chabakia”. I calzoncelli (fagottini con impasto di castagne, vin cotto, pinoli, mostarda e miele, aromatizzati con cannella e polvere di garofano, poi fritti e bagnati nel vin cotto) sono di origine greco-latina. Tant’è che persino la ricetta è simile a quella greco-latina che andava sotto il nome di “dulcia domestica et melcae”. I mostaccioli invece hanno conservato nel tempo la stessa ricetta che conoscevamo sotto il nome di “musteis”. Infine, “i nannarille” pezzetti di pasta preparati a mò di grossi ceci e poi passati nel miele erano molto noti nel mondo latino. Il decantato”puperéte” poperato o peperato preparato nel foggiano e in particolare a Monte S.Angelo, molto probabilmente deriva da una espressione dialettale della lingua albanese e risale all’insediamento degli esuli albanesi sul Gargano nella seconda parte del 1400. L’acquisizione del termine di questo dolce denominato peperato risale quindi al periodo Aragonese, allorquando re Ferdinando I per riappacificare le tensioni nel territorio regionale, concesse al principe albanese Giorgio Castriota (lo Skandemberg) il feudo del Gargano.
**Le leccornie a Manfredonia sono anche denominate e note sotto il nome de “i ciangularije”, mentre il termine “ciangulaminde” è la golosità. Gli aromi principali invece, utilizzati in loco per preparare le leccornie e non solo quelle natalizie sono: “a cannelle”(la cannella); “u pepòne” detto anche “trepedòzze”(pimento della Giamaica); “l’ammunejiche” (carbonato d’ammonio) detta volgarmente “a pesciacchje” perchè ha l’odore dell’urina; “i chiuve de jaròfene” (chiodi di garofano).
**Nel 1920 un certo Vincenzo “Vecenzine” Castigliego, aprì in corso Manfredi, nei pressi della villa comunale una drogheria. In seguito, l’attività commerciale fu rilevata da Viscardo Guerra nipote di Castigliego e prese il nome dal popolino: “Vecenzune Vescarde”. Da anni la popolare drogheria è gestita dal prof. Elio Guerra (tra l’altro bravo scultore del legno) figlio di Viscardo Guerra. Il droghiere in loco va sotto il nome di “spezzjéle”. Siccome nell’emporio di “Vecenzine Vescarde” si vendeva di tutto, un tempo i grandi per puro divertimento per prendere in giro i ragazzi li comandavano di andare da “Vecenzine Vescarde” a comprare il rumore di carrozza “u remore carrozze”, illudendo il ragazzo di turno che fosse una merce che vendeva la drogheria. Chiaramente, il ragazzo deriso dal droghiere tornava indietro sconsolato e la burla finiva in una grande risata degli adulti. Unica consolazione del ragazzo era di prendersi i pochi soldini a lui consegnati, per l’acquisto della merce inesistente.
A cura di Franco Rinaldi, cultore di storia e tradizioni popolari di Manfredonia
FOTOGALLERY IN ALLEGATO
bravo franco
qual è l’origine delle cartellate ?
un abbraccione amico mio
giacomo
Che magnifici e… “profumati” ricordi: grazie di cuore, carissimo Franco.