Insolito come un fotografo d’oltralpe scenda nella nostra penisola e la percorra interamente per insinuarsi nei particolari essenziali di vita sociale; la quale, vero, è di natura mediterranea ma, lui stesso lo suggerisce, di unicità nelle contrade italiane.
Una straordinaria coreografia popolare e scenografia urbana, queste nella rassegna di Bresson, che ravviva portentosamente ciò che è dimenticato o, forse, volutamente oscurato.
Il grande artista, nato a Chanteloup-en-Bie nell’Ile de France il 1908, scomparso in Provenza a Montjustin nel 2004, si era recato per la prima volta nel nostro paese nel ‘32 in compagnia dello scrittore André Pieyre de Mandiargues e della scrittrice italiana di adozione parigina Leonor Fini, lei appassionata di fotografia, oltre a dedicarsi alla pittura e alle scenografie teatrali; tutti e tre coetanei poco più che ventenni.
Accadde giusto durante quella escursione transalpina, una sorta di grand-tour estemporaneo, che nacque l’amore tra Leonor e Pieyre.
Bresson, utilizzava una Leica 35mm, la sua quarta macchina, dopo la prima Kodak con la quale aveva dato l’abbrivo all’impeto per la professione.
Il trio soggiornò tra le maggiori città dell’area continentale, scendendo sino a Firenze, Siena e Napoli; Pieyre, nellesuecronachedel viaggio, avrebbe poi pubblicato che “aveva visto nascere in Henry il più grande fotografo dei tempi moderni”.
In verità, i giochi di luce e ombra degli scatti nelle strade e cortili a Siena, Firenze, Napoli e Salerno, le immagini dei bimbi anche nudi di Livorno, degli scugnizzi campani e delle “nature morte” di Napoli le cui cassette, esposte ammassate fuori di angusti magazzini, fanno da ombra agli appisolatisi venditori bruciati dal sole, il tutto insomma identifica la sua curiosità artistica verso le piazze, che assimilerà dichiarando come fossero importanti per la cultura italiana.
Dello stesso periodo, Henri ci ha tramandato le toccanti immagini poetiche degli amanti Pieyre e Leonor, denudati nelle acque di Trieste, simili a divinità greco-romane. ben lontano da ogni intento scandalistico.
Da lì, il trio si allunga a Rovigno, allora italiana, e il suo obiettivo indugia su una terra che irraggia tanta religiosità, vedi la metafora nell’istantanea di un gruppo di prelati colti di spalle, che passeggiano incappellati bene avvolti nei mantelli, quasi in una deflagrazione del nero ecclesiastico tra le case e i campi impressionati di luce invernale.
Due anni dopo lo si ritrova sui set cinematografico ad assistere il regista Jean Renoir, incontral’ungherese naturalizzato statunitense Endre Erno Friedmann alias Robert Capa, noto per i suoi reportage sulle guerre, con il quale nel 1947 fonda l’Agenzia Magnum assieme al fotoreporter inglese George Rodger e al fotografo giornalista polacco David Seymour.
Dopo la guerra, Bresson ritorna nostalgicamente nella penisola, toccando il Sud, la Sicilia e la Sardegna.
Negli anni Cinquanta, considerato ormai il “re dei fotografi” da Oriana Fallaci, è a Roma e la sorpresa s’irradia ove Henri si attarda per una serie di immagini fuori luogo, in cui riprende una inaspettata “caccia alla volpe” nei pressi della capitale.
Ciò che tra le strade, però, lo magnetizza oltremodo è la festività dell’Epifania ed ecco l’ammucchiarsi ai piedi dei “pizzardoni”, che gesticolano dall’alto delle pedane, delle tangibili offerte dai motorizzati in transito, ecco la tradizionale ricorrenza in Piazza Navona copiosa di palloncini, regali e dolcetti, ecco la benevolenza popolare nell’assicurare un piatto di spaghetti ai meno abbienti, che lo divorano senza tema di curare un falso contegno, ecco lo spontaneo affollamento dei ragazzini che ostentano, giocandovi, spade, fucili e pistole elargiti durante la notte dalla befana. Un caleidoscopio in bianco e nero, infine, di figure umane, adulti e ragazzi, tra le vie, le piazze e le fontane, ognuno con il proprio da fare, non mancando ancora le nere comparse dei prelati a far rammentare il manto religioso della comunità.
Ed è a Roma che assiste alla proclamazione di Giovanni XXIII, riprendendo gli sguardi zoomati, rivolti insù dell’emozionata folla assiepata.
Il fotografo francese, forse ispirato da un servizio apparso su “Epoca” nel 1950 dal titolo “Il miracolo del Gargano” di Alfonso Gatto con foto di P. M. Pietzsch, guarda al meridione e lo ritroviamo a Ischia, un’isola “deserta”, in cui descrive gente che lavora, ancora lontana dalle invasioni turistiche, a Metaponto, dove coglie una manifestazione politica, ad Accettura donde ci riporta un mesto corteo funebre che si protende in linea con il profilo della collina e una dovizia iconografica da Grottole, Matera, Scanno L’Aquila; se in quest’ultima località riprende una geniale immagine, significativa della sua perizia, di una donna in abito tradizionale al cospetto di un panorama che richiama gradualmente, nel piani successivi, il muretto stradale, le case e le colline, a Scanno è la gente comune, uomini con i tabarri e cappelli, donne, con le loro ampie e pesanti vesti corredati dai grembiuli, a “macchiare” di nero ogni solare porzione scenografica.
Una teoria iconografica che, affiancato dal marchigiano Mario Giacomelli, illumina nel mondo questa “oscura” comunità, tant’è che il paese non ha mai dimenticato, dedicando loro una placca in piazza.
Massimo Lelj, in un articolo corredato dalle immagini del Nostro, “Il Natale a Scanno” riporta su “Illustrazione italiana” che “il maggior fotografo d’oggi, Henri Cartier Bresson, ha scattato questa Scanno: aspro nido di pastori, agricoltori, tessitori, presi soltanto dal volgere delle stagioni e delle opere”.
A Matera il suo talento artistico fermenta trovandosi compartecipe di un vero e proprio coinvolgimento a opera di organismi statunitensi, politici e imprenditori italiani richiamati dal recupero sociale, architettonico e urbanistico del centro e che lo avrebbero accompagnato a disperdere quella peculiarità che ne faceva il simbolo del degrado meridionale, trasfigurandolo nel 2019 quale capitale europea della cultura.
Negli anni Settanta, la nostalgia della nostra Italia non lo abbandona per cui tende a calarsi sempre più a sud e lo ritroviamo a Pomigliano dove l’industrializzazione post-bellica italiana lo incalza a recarsi nella fabbrica dell’Alfa Romeo. In Puglia rintraccia la modernità immortalando l’immagine di una giovane in minigonna e stivali a pubblicizzare una pompa di benzina. Il progresso, tuttavia, appare lento e così ci tramanda la contestazione di Palermo che chiede “acqua per le nostra case, per le campagne, per l’industria” e, certamente in allegoria, ci presenta politici intenti a discutere in Palazzo dei Normanni e il traffico automobilistico bloccato in un’arteria palermitana mentre due bimbi corrono liberi. ricorrendo con un bastoncino la tipica ruota di bicicletta, facendola ruzzolare lungo il marciapiede deserto.
In Sardegna, nel ’62 coglie una donna nella spiaggia di Cala Gonone a Dorgali, ammantata di nero, tutt’uno col fazzoletto che le avvolge il capo, una sorta di chiazza in contrasto con il colore della sabbia rovente in cui è sprofondatasino alla vita, quale metodo terapeutico tramandato.
Negli anni Ottanta si distacca dalla fotografia, dando vita all’innamoramento per l’arte pittorica.
Si spegne a 95 anni, documentarista, tra l’altro, di una storica generazione che impressiona nelle sue lastre, vedi Pietro Nenni per L’Express, l’architetto Pier Luigi Nevi, collaboratore di Le Corbusier, e Giorgio De Chirico a Roma, Luchino Visconti a Spoleto, Leonardo Sciascia a Palermo, la ritrattista belga Martine Franck ed Ezra Pound a Venezia, e ancora Gandhi, Martin L. King, Jean Paul Sartre.
A Roma, incantevole l’istantanea di Arrigo Leviche colloquia sorridente, seduto in un ambiente interno,e di chiara impronta cinematografica quella di Pier Paolo Pasoliniche si intrattiene con dei ragazzi di borgata in uno scenario di baracche e di nascenti palazzoni-alveari in fondo campo.
Henri Cartier Bresson, tuttavia, resta quale pioniere del fotogiornalismo e rappresenta incontrastato “l’occhio del secolo “ per averci consegnato opere di profondo realismo e immediatezza, classificabile quale fotografia umanista, pur se ricordato per le sue divagazioni di stampo surrealista, un’arte d’élite che diceva di voler far conoscere alla gente comune.
A cura di Ferruccio Gemmellaro Meolo, Città metropolitana di Venezia.