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Manfredonia.”I spruuature” (i potatori) Matteo e Tommaso Tomaiuolo

AUTORE:
Redazione
PUBBLICATO IL:
22 Aprile 2020
Manfredonia // Stato tv //

Prima di carnevale,  ho fatto la solita passeggiata in campagna in zona “sotta Pulezéne”  sotto Pulsano nei terreni che erano di proprietà dei miei nonni paterni al secolo “Marasciàlle, dove ogni volta faccio escursioni salutari, dedicandomi nel contempo alla raccolta di verdure mangerecce spontanee che crescono abbondanti in quella zona collinare. Oppure eseguo piccoli lavori manuali  che effettuo nell’oliveto  “a chiusette” dei miei nonni, un tempo coltivato anche  a vigneto. Ma la ragione  principale, per la quale mi piace quella zona rurale perché mi ricorda la mia infanzia allorquando  trascorrevo il periodo estivo in quella campagna. Il luogo è molto bello,  con un panorama mozzafiato e con una vegetazione ricca di piante di rosmarino e di  timo che inebriano l’aria. Altro motivo importante del mio andare periodicamente in campagna,  è quello di  controllare che non abbiano fatto danni e rubato altro  materiale conservato nella  “turrette” (casetta rurale) dei miei nonni,  da tempo soggetta a sfascio e a saccheggi da parte di miserabili predoni  sconosciuti. Quest’ultimi,  di notte,  continuano indisturbati a  predare di tutto, dopo aver spaccato porte, catenacci, reticolati   e cancelli di tutte le case rurali, villette e grotte  esistenti e non abitate  da sotto Pulsano a tutta la  zona Manganaro.

Sempre prima di Carnevale,  a fianco all’ex chiuseto di proprietà di mio padre, ho incontrato due bravissimi  “spruuature” potatori di Manfredonia, Matteo e Tommaso Tomaiuolo (padre e figlio) che stavano effettuando un impegnativo  lavoro di potatura di  secolari  alberi di olivo nel chiuseto  di proprietà dell’amico  Franco Schiavone. Sono rimasto felicemente sorpreso, per l’eccellente lavoro di sfrondatura e taglio,  direi quasi “chirurgico”  eseguito dai i due lavoratori di Manfredonia. Sinceramente, mi hanno ricordato anche un po’ la potatura che praticava mio padre con tanta dedizione e amore nel suo oliveto, utilizzando la sua inseparabile “accettuline” (piccola scure, tenuta affilata sempre con tanta cura) con la quale eliminava dopo  tanta fatica, dal  tronco e dai rami di ogni albero  “u fràcete” (come lo chiamava  lui) che era  la parte malata dell’olivo. Nella breve intervista fatta ai due potatori, ho potuto carpire la competenza e  la dedizione che hanno per il loro lavoro. Mi riferiva il capo famiglia  Matteo Tomaiuolo,  che aveva iniziato a fare questo lavoro da piccola età e lo esercitava da 53 anni. Mentre il figlio Tommaso, mi ha confessato che tra i tanti lavori svolti, quello di potatore è quello che  gli piace di più e che ha scelto di continuare  a fare con passione,  impegno e  abilità.

 

LA POTATURA DEGLI ULIVI NEL NOSTRO TERRITORIO E L’UTILIZZO DELLE FASCINE DI RESIDUI DI ULIVI-RICORDI

Come da antica consuetudine, nei mesi di gennaio,  febbraio  e marzo si tiene nell’agro sipontino la potatura degli alberi  di olivo. Un tempo,  la maggior parte dei contadini proprietari di un chiuseto, si cimentavano anche nella potatura degli alberi, mentre  gli olivicoltori, proprietari di più oliveti denominati in loco “i jammeddére” assumevano  “i spruuature” (i potatori)  per la stagione lavorativa relativa alla  potatura degli ulivi. Lo sfoltimento  dell’ulivo si faceva (utilizzando al massimo la grandezza dell’albero)  con il taglio dei rami  che non dovevano andare  troppo verso l’alto. Oggi,  molti agricoltori  prediligono far eseguire  la  potatura degli olivi  cosiddetta “a ombrello”  tenendo larghi i rami degli alberi e  penzolanti, per facilitare la raccolta delle olive con il sistema meccanico eseguito con le “paparelle”. Un tempo la potatura veniva effettuata con gli arnesi tradizionali quali: ”accettuline” (piccola scure); “asce” (scure); “acciature” (potatoio); “forbece pe pputè” (forbici da potatore); “curtidde pe putè” (roncolo); “a ronghe” (la roncola); “prote p’affelè” (cote, pezzo di pietra abrasiva per affilare); “schele de legne” (scala di legno); “a forche” (forca, per raccogliere i rami potati sotto l’albero). Nei grandi chiuseti, lavoravano un tempo squadre di potatori composte da sei operai, con il capo potatore  che dirigeva i lavori sotto gli alberi,   il vice capo  denominato in loco “affascinatore” (raccoglieva i rami recisi) e gli altri salivano sugli alberi per la potatura. Da alcuni  anni  i nostri operari addetti alla potatura degli alberi di olivo  oltre all’utilizzo degli antichi arnesi, prediligono, per velocizzare il lavoro   la motosega a scoppio. Era consuetudine una volta, che  i contadini, lasciavano  nel loro chiuseto un albero di olivo non potato  perché lo dovevano sfrondare  qualche giorno prima della la Domenica delle Palme, per conservare le fascine di palme  fresche e portarle in Chiesa per la benedizione delle stesse.  Sempre la Domenica delle Palme, dopo il rito religioso della benedizione delle palme, come da antica tradizione, le fascine venivano riportate  in campagna  e posizionate  “piantate” nei  seminati,   negli oliveti a protezione dei raccolti e  nelle stalle dove si allevava il bestiame. In campagna tutto veniva utilizzato. I grossi tronchi “i ceppune” e “a legne” (rami più piccoli) potati, venivano  tagliati a pezzi e accatastati e successivamente adoperati  in campagna e in casa  nella  cucina a legna. Invece i rami potati denominati in loco “i frasche” venivano sistemati  a fasci. Quest’ultimi,  trasportati e accatastati in un’area vuota dell’oliveto si lasciavano seccare e poi bruciare.  In campagna dei miei nonni e di  mio padre invece, era usanza fare la carbonella con le fascine secche degli ulivi e  dei mandorli. Ricordo che quando mio padre finiva di potare gli alberi, andavo anch’io nell’oliveto  e l’aiutavo a raccogliere i rami tagliati “i frasche” lasciati a terra sotto gli alberi  e li trasportavo  in un angolo vuoto del chiuseto, dove li accatastavamo  e li  facevano seccare  per fare  “a carvunélle” (la carbonella).

Nel contempo, sempre dopo la potatura, andavo a recuperare  tutti tronchi di olivo e di mandorlo tagliati a pezzi, lasciati sotto gli alberi. Tutte le volte, che dovevamo accendere il falò e fare la carbonella era una lite continua con mio padre perché  ritenevo che era un lavoro  faticoso e pericoloso per le esalazioni sprigionate sia dal  falò e sia dal cumulo della carbonella preparata. Bruciate le fascine, si passava ad asciugare la carbonella a terra, facendo attenzione a spegnere  ogni piccolo residuo di fuoco ancora acceso. La carbonella ottenuta veniva posizionata  a mò di cerchio e girata con una pala e un rastrello parecchie volte e continuamente bagnata utilizzando piante spontanee  e attingendo acqua da un antico pozzo che raccoglieva acque piovane,  sito nei pressi del chiuseto. Il lavoro continuo di spegnimento degli ultimi piccoli focolai  serviva  “pe ne farla struje” per non farla consumare e poi anche per eliminare i fumi tossici del composto organico trasformato in carbonella.  A conclusione di tutte le operazioni,  eravamo diventati entrambi neri “cume nu carevone” come un carbone e mi veniva  ogni volta un mal di stomaco che mi durava  per due o tre giorni. Un  anno,  per far capire a mio padre “ciocche de Monde” che non intendevo  più fare la carbonella,  perché non ne valeva la pena, lo lasciai da solo e me ne tornai a piedi casa “pu tratture de Pulezene”, per il vecchio tratturo che portava all’Abbazia di Pulsano.

Ricordo ancora dopo anni, le urla terrificanti che lanciò mio padre dal chiuseto, mentre mi allontanavo, che si sentivano a centinaia di metri di distanza e  non vi dico quello che è successo dopo a casa di mia madre. La carbonella “rùsce” e  “ruscélle”   preparata, una volta raffreddata la mettevamo in sacchetti di plastica dura che conservavamo nella “torretta” casetta rurale dei miei nonni.

Quando occorreva, mio padre  portava a casa un sacchetto per volta che  mia madre la utilizzava per accendere il fuoco  nel braciere per riscaldare la casa. Ricordo che la carbonella in campagna si faceva anche con le bucce secche delle mandorle, con un processo di lavorazione  molto più semplice e veloce. Una volta, con i polloni “i lupe” (i rami che nascono ai piedi dell’albero di olivo) alcuni contadini li utilizzavano per costruire ceste e “panére” panieri. I polloni  che crescono  dopo la potatura sotto l’albero di olivo vengono solitamente tagliati nei mesi di giugno-luglio. Va ricordato, che fino al dopo guerra a Manfredonia, “i frasche” le fascine di rami secchi di olivo  per accendere il fuoco nelle cucine a legna nelle case si vendevano per la città, ammassate e portate su un carrettone trainato da un cavallo o portate “sopa na carrettélle ” su una carretta tirata da un asino. Le fascine venivano anche vendute ai “furnére” ai proprietari di  forni a legna che le utilizzavano per  accendere il fuoco nei loro forni.

FOTOGALLERY

Albero di olivo gigantesco secolare-alla base dell’albero – i lupe-Ph. Franco Rinaldi (2)
Potatura non stagionale eseguita da Matteo e Tommaso Tomaiuolo durante l’estate per salvare una secolare pianta di olivo
Olivi secolari in un chiuseto zona Manganaro-Ph Franco Rinaldi
Matteo Tomaiuolo intento a potare un albero di olivo
LEGNA DI RAMI POTATI DI OLIVO
-Il potatore Tommaso Tomaiuolo sotto un albero secolare di olivo
Il potatore Matteo Tomaiuolo con -l’accettuline- piccola scure sulla spalla
I lupe – i polloni – che crescono ai piedi degli alberi di olivo
Dopo guerra ’45-Via S. Francesco.Venditore di fascine secche di olivo -i frasche- usate per accendere il fuoco nelle cucine a legna -Manfredonia Ricordi-Matteo Borgia
Albero di olivo gigantesco secolare-Ph. Franco Rinaldi (1)

1- Potatura di olivi in un chiuseto con sistema a ombrello -con i rami portati verso il basso
I Potatori -Tommaso e Matteo Tomaiuolo

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“Ma tu chi sei che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri?” William Shakespeare

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