Prima di carnevale, ho fatto la solita passeggiata in campagna in zona “sotta Pulezéne” sotto Pulsano nei terreni che erano di proprietà dei miei nonni paterni al secolo “Marasciàlle”, dove ogni volta faccio escursioni salutari, dedicandomi nel contempo alla raccolta di verdure mangerecce spontanee che crescono abbondanti in quella zona collinare. Oppure eseguo piccoli lavori manuali che effettuo nell’oliveto “a chiusette” dei miei nonni, un tempo coltivato anche a vigneto. Ma la ragione principale, per la quale mi piace quella zona rurale perché mi ricorda la mia infanzia allorquando trascorrevo il periodo estivo in quella campagna. Il luogo è molto bello, con un panorama mozzafiato e con una vegetazione ricca di piante di rosmarino e di timo che inebriano l’aria. Altro motivo importante del mio andare periodicamente in campagna, è quello di controllare che non abbiano fatto danni e rubato altro materiale conservato nella “turrette” (casetta rurale) dei miei nonni, da tempo soggetta a sfascio e a saccheggi da parte di miserabili predoni sconosciuti. Quest’ultimi, di notte, continuano indisturbati a predare di tutto, dopo aver spaccato porte, catenacci, reticolati e cancelli di tutte le case rurali, villette e grotte esistenti e non abitate da sotto Pulsano a tutta la zona Manganaro.
Sempre prima di Carnevale, a fianco all’ex chiuseto di proprietà di mio padre, ho incontrato due bravissimi “spruuature” potatori di Manfredonia, Matteo e Tommaso Tomaiuolo (padre e figlio) che stavano effettuando un impegnativo lavoro di potatura di secolari alberi di olivo nel chiuseto di proprietà dell’amico Franco Schiavone. Sono rimasto felicemente sorpreso, per l’eccellente lavoro di sfrondatura e taglio, direi quasi “chirurgico” eseguito dai i due lavoratori di Manfredonia. Sinceramente, mi hanno ricordato anche un po’ la potatura che praticava mio padre con tanta dedizione e amore nel suo oliveto, utilizzando la sua inseparabile “accettuline” (piccola scure, tenuta affilata sempre con tanta cura) con la quale eliminava dopo tanta fatica, dal tronco e dai rami di ogni albero “u fràcete” (come lo chiamava lui) che era la parte malata dell’olivo. Nella breve intervista fatta ai due potatori, ho potuto carpire la competenza e la dedizione che hanno per il loro lavoro. Mi riferiva il capo famiglia Matteo Tomaiuolo, che aveva iniziato a fare questo lavoro da piccola età e lo esercitava da 53 anni. Mentre il figlio Tommaso, mi ha confessato che tra i tanti lavori svolti, quello di potatore è quello che gli piace di più e che ha scelto di continuare a fare con passione, impegno e abilità.
LA POTATURA DEGLI ULIVI NEL NOSTRO TERRITORIO E L’UTILIZZO DELLE FASCINE DI RESIDUI DI ULIVI-RICORDI
Come da antica consuetudine, nei mesi di gennaio, febbraio e marzo si tiene nell’agro sipontino la potatura degli alberi di olivo. Un tempo, la maggior parte dei contadini proprietari di un chiuseto, si cimentavano anche nella potatura degli alberi, mentre gli olivicoltori, proprietari di più oliveti denominati in loco “i jammeddére” assumevano “i spruuature” (i potatori) per la stagione lavorativa relativa alla potatura degli ulivi. Lo sfoltimento dell’ulivo si faceva (utilizzando al massimo la grandezza dell’albero) con il taglio dei rami che non dovevano andare troppo verso l’alto. Oggi, molti agricoltori prediligono far eseguire la potatura degli olivi cosiddetta “a ombrello” tenendo larghi i rami degli alberi e penzolanti, per facilitare la raccolta delle olive con il sistema meccanico eseguito con le “paparelle”. Un tempo la potatura veniva effettuata con gli arnesi tradizionali quali: ”accettuline” (piccola scure); “asce” (scure); “acciature” (potatoio); “forbece pe pputè” (forbici da potatore); “curtidde pe putè” (roncolo); “a ronghe” (la roncola); “prote p’affelè” (cote, pezzo di pietra abrasiva per affilare); “schele de legne” (scala di legno); “a forche” (forca, per raccogliere i rami potati sotto l’albero). Nei grandi chiuseti, lavoravano un tempo squadre di potatori composte da sei operai, con il capo potatore che dirigeva i lavori sotto gli alberi, il vice capo denominato in loco “affascinatore” (raccoglieva i rami recisi) e gli altri salivano sugli alberi per la potatura. Da alcuni anni i nostri operari addetti alla potatura degli alberi di olivo oltre all’utilizzo degli antichi arnesi, prediligono, per velocizzare il lavoro la motosega a scoppio. Era consuetudine una volta, che i contadini, lasciavano nel loro chiuseto un albero di olivo non potato perché lo dovevano sfrondare qualche giorno prima della la Domenica delle Palme, per conservare le fascine di palme fresche e portarle in Chiesa per la benedizione delle stesse. Sempre la Domenica delle Palme, dopo il rito religioso della benedizione delle palme, come da antica tradizione, le fascine venivano riportate in campagna e posizionate “piantate” nei seminati, negli oliveti a protezione dei raccolti e nelle stalle dove si allevava il bestiame. In campagna tutto veniva utilizzato. I grossi tronchi “i ceppune” e “a legne” (rami più piccoli) potati, venivano tagliati a pezzi e accatastati e successivamente adoperati in campagna e in casa nella cucina a legna. Invece i rami potati denominati in loco “i frasche” venivano sistemati a fasci. Quest’ultimi, trasportati e accatastati in un’area vuota dell’oliveto si lasciavano seccare e poi bruciare. In campagna dei miei nonni e di mio padre invece, era usanza fare la carbonella con le fascine secche degli ulivi e dei mandorli. Ricordo che quando mio padre finiva di potare gli alberi, andavo anch’io nell’oliveto e l’aiutavo a raccogliere i rami tagliati “i frasche” lasciati a terra sotto gli alberi e li trasportavo in un angolo vuoto del chiuseto, dove li accatastavamo e li facevano seccare per fare “a carvunélle” (la carbonella).
Nel contempo, sempre dopo la potatura, andavo a recuperare tutti tronchi di olivo e di mandorlo tagliati a pezzi, lasciati sotto gli alberi. Tutte le volte, che dovevamo accendere il falò e fare la carbonella era una lite continua con mio padre perché ritenevo che era un lavoro faticoso e pericoloso per le esalazioni sprigionate sia dal falò e sia dal cumulo della carbonella preparata. Bruciate le fascine, si passava ad asciugare la carbonella a terra, facendo attenzione a spegnere ogni piccolo residuo di fuoco ancora acceso. La carbonella ottenuta veniva posizionata a mò di cerchio e girata con una pala e un rastrello parecchie volte e continuamente bagnata utilizzando piante spontanee e attingendo acqua da un antico pozzo che raccoglieva acque piovane, sito nei pressi del chiuseto. Il lavoro continuo di spegnimento degli ultimi piccoli focolai serviva “pe ne farla struje” per non farla consumare e poi anche per eliminare i fumi tossici del composto organico trasformato in carbonella. A conclusione di tutte le operazioni, eravamo diventati entrambi neri “cume nu carevone” come un carbone e mi veniva ogni volta un mal di stomaco che mi durava per due o tre giorni. Un anno, per far capire a mio padre “ciocche de Monde” che non intendevo più fare la carbonella, perché non ne valeva la pena, lo lasciai da solo e me ne tornai a piedi casa “pu tratture de Pulezene”, per il vecchio tratturo che portava all’Abbazia di Pulsano.
Ricordo ancora dopo anni, le urla terrificanti che lanciò mio padre dal chiuseto, mentre mi allontanavo, che si sentivano a centinaia di metri di distanza e non vi dico quello che è successo dopo a casa di mia madre. La carbonella “rùsce” e “ruscélle” preparata, una volta raffreddata la mettevamo in sacchetti di plastica dura che conservavamo nella “torretta” casetta rurale dei miei nonni.
Quando occorreva, mio padre portava a casa un sacchetto per volta che mia madre la utilizzava per accendere il fuoco nel braciere per riscaldare la casa. Ricordo che la carbonella in campagna si faceva anche con le bucce secche delle mandorle, con un processo di lavorazione molto più semplice e veloce. Una volta, con i polloni “i lupe” (i rami che nascono ai piedi dell’albero di olivo) alcuni contadini li utilizzavano per costruire ceste e “panére” panieri. I polloni che crescono dopo la potatura sotto l’albero di olivo vengono solitamente tagliati nei mesi di giugno-luglio. Va ricordato, che fino al dopo guerra a Manfredonia, “i frasche” le fascine di rami secchi di olivo per accendere il fuoco nelle cucine a legna nelle case si vendevano per la città, ammassate e portate su un carrettone trainato da un cavallo o portate “sopa na carrettélle ” su una carretta tirata da un asino. Le fascine venivano anche vendute ai “furnére” ai proprietari di forni a legna che le utilizzavano per accendere il fuoco nei loro forni.
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