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Festa patronale/1. Maria ci insegna ad affrontare le prove della vita

AUTORE:
Michele Illiceto
PUBBLICATO IL:
26 Agosto 2023
Editoriali // Manfredonia //

MANFREDONIA (FOGGIA) – (di Michele Illiceto) Non deve essere stato facile per Maria, giovane ragazza di Nazareth, promessa sposa di Giuseppe, diventare quella che poi è diventata. Avere una visione e non confonderla con una illusione, avere Dio in casa e non tenerlo in tasca. Collaborare con la grazia divina e non sentirsi padrona dell’opera che grazie a lei sta per cominciare. Ricevere un saluto insolito da un angelo divino e non montarsi la testa, credendosi migliore delle altre. Maria non usa la religione per fare carriera o per scalare i gradini del potere.

 

No! Maria, scelta da Dio, non sale su di un piedistallo, ma scende ancora più di grado, si mette all’ultimo posto delle gerarchie umane.

 

Comincia a capire che se Dio scende dal cielo, chi sono io per salire in cielo! E all’angelo, che la chiama “piena di grazia”, lei si presenta con un titolo scomodo e difficile da realizzare, ma profetico e rivoluzionario: “Eccomi, sono la serva del Signore!” Per questo don Tonino Bello l’ha definita “donna del servizio”. Servire voce del verbo amare.

PROCESSIONE FESTA IN ONORE DELLA MADONNA DI SIPONTO (ph matteo nuzziello)
PROCESSIONE FESTA IN ONORE DELLA MADONNA DI SIPONTO (ph matteo nuzziello)

 

Potrebbe accontentarsi. Sentirsi arrivata. Sazia. E, invece, diventa, anche “donna del cammino” e “donna del primo passo”. Vince le sue paure e si mette subito in viaggio per andare da sua cugina Elisabetta, per mettersi al suo servizio. Maria non ama la sedentarietà. Intrepida, affronta un viaggio da sola, con un grembo già rigonfio. Viaggiare è un’esperienza di alterità e di prossimità. Lei, tenda di Dio, si fa tenda dell’uomo. Perché, quando Dio è in te, i piedi cominciano a volare. E non temi tanto le distanze fisiche quanto quelle scritte nei nostri cuori. Maria affronta anche le distanze culturali per abbattere i muri costruiti dai potenti per costruire ponti e legami nuovi.

 

Quei tre mesi dalla cugina, tra panni e servizi vari, le servono per crescere come donna, come sposa e come madre. È il suo noviziato. E dall’obbedienza impara anche la sofferenza che ti è chiesta quando vuoi cambiare il mondo.

Maria non si mette sull’altare, né si mette una corona in testa. Definita da don Tonino anche “donna feriale”, sperimenta la fatica della vita quotidiana, per dire che il Dio che le sta crescendo dentro è un Dio esperto di umanità, che viene a mettere la sua tenda tra le povertà e le fragilità di ogni giorno. Se ami Dio, sposi la quotidianità, che non è banalità o ferrea ovvietà, ma tempo inedito in cui celebrare la vita in tutta la sua bellezza e dignità.

 

Quando torna al suo villaggio, deve affrontare un’altra difficoltà: deve parlare a Giuseppe di quello che le sta accadendo. Maria è una “donna innamorata”, e quell’uomo buono e giusto non lo vuole perdere. Ma per farlo deve affrontare non solo le dicerie del suo villaggio, ma ancor più l’incomprensione dell’uomo di cui è innamorata. Tutti ormai si chiedono il perché di quel pancione.

 

Ma Maria, “donna del silenzio”, accetta di non essere capita.

 

Il suo segreto è più grande dei giudizi del suo vicinato. Si guarda, e vede Dio che le cresce dentro, ma nessuno lo sa. Deve essere stato difficile avere dentro qualcosa di tanto grande e non poterlo dire a nessuno.

Dà a Giuseppe il tempo di capire. Mostra un amore paziente, che sa aspettare che il suo promesso sposo apra anch’egli gli occhi. Rischia la lapidazione, ma ha fiducia. Maria, “donna coraggiosa”, non crede perché Dio le fa sconti, ma perché continuamente la sorprende. Quanta solitudine deve aver sperimentato questa giovane ragazza, sola contro tutti! È una cosa che puoi fare solo se in te hai quell’Assoluto che per te è davvero Tutto.

 

Quando poi anche Giuseppe finalmente viene a conoscenza del disegno divino, anziché rimproverarlo, lei perdona il suo ritardo. E, insieme, tra mille peripezie arrivano a Betlemme, dove, per partorire, per loro non vi era posto. Maria ha provato l’esclusione e la marginalizzazione. Lo scarto. E sicuramene si sarà chiesta che razza di Dio sarà mai questo Signore che accetta di essere messo al margine da colui – l’uomo – che ha creato?

Finalmente partorisce questo bimbo non nelle stanze del potere, ma in una stalla, simbolo non più della logica dell’onnipotenza, ma della deponenza.

 

Ma, ecco, che non fa in tempo a gioire per l’evento, che subito deve scappare in Egitto per sfuggire a Erode. Maria, “donna di frontiera”, conosce l’esilio, come tanti profughi di allora e di sempre, fuggendo su un asinello, metafora delle tante, troppe, barche di oggi. Incrocia gli occhi del tiranno: Erode e Maria a confronto. La cattiveria e la mitezza, come sempre nella storia, si confrontano e si scontrano C’è chi, come Erode, la vita la uccide anche appena nata, e chi invece, come Maria, la genera e la custodisce.

Tornata a Nazareth, il bambino cresce in età e grazia.

 

Lei lo guarda e sa che non è suo. Se ne accorge quando lo perde nel tempio a Gerusalemme. Maria, come ogni madre, ama quel figlio, ma non gli si attacca. Non fa progetti su di Lui perché il progetto è Lui. Da maestra, comincia a farsi sua discepola, perché quel giovane, ora, è cresciuto e lascia la casa per vivere per strada.

Lo sente dire cose strane, come il fatto che bisogna amare i nemici, o vendere tutto per avere un tesoro in cielo. Lo vede frequentare prostitute e peccatori, ladri e lebbrosi, falliti e perdenti. Ma soprattutto comincia a temere per Lui quando, diventato rabbì, si mette contro il potere religioso e politico. Lo sente parlare di pace e di giustizia, e comincia capire che quel sogno cominciato anni addietro, finalmente ora sta per realizzarsi.

 

Lei più o meno già sa che fine dovrà fare, e sa che anche a lei una spada dovrà trafiggerle l’anima. E quando quel giorno arriva, per lei è tremendo: vede il proprio figlio tradito, abbandonato, processato e crocifisso. E Maria si chiede: “Dov’è Dio? Dov’è quel Dio che un giorno me lo ha dato?”

 

Ai piedi della croce, Maria donna del dolore, si fida e si affida. Ancora una vola si fida, sfidando la notte e l’oscurità, i dubbi e le perplessità. Quel figlio che muore è il seme di una umanità nuova. La rivoluzione è compiuta. Il male ha perso perché, come dice la filosofa H. Arendt, non ha profondità. Solo il bene è profondo, e quindi radicale. Il male può essere solo banale.

E proprio dalla croce sente le parole più belle che potesse sentire: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. E poi, per l’ultima volta, incrociando gli occhi di suo figlio morente, da Lui si sente dire: “Donna ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre”. Da allora, Maria non è solo madre del Figlio di Dio, ma anche madre nostra. Madre di ogni uomo. Madre di ogni crocifisso.

 

Tutti sono scappati, lei invece è rimasta perché ha creduto che il chicco di grano, se vuole diventare spiga, deve affrontare l’inverno del dolore e il vuoto dell’abbandono. E se gli altri, delusi, hanno smesso di aspettare che qualche cosa uscisse da quel crocifisso debellato e sconfitto, e col volto triste sono tornati alla vita di prima, lei, al contrario, ha continuato a credere e a vegliare. Con la sua attesa, ha forzato l’aurora a nascere, e ha intessuto la speranza in un mondo nuovo, quella inaugurata dal Risorto.

Maria, con tutte le sue prove, non ha avuto una vita facile.

Avrebbe voluto avere una vita normale come tante altre donne, e invece, ha incrociato Dio che le ha chiesto molto di più. Che cosa può dunque insegnare Maria a agli uomini e donne del postmoderno?

 

Penso che si insegni le tre cose più importanti: la fede, la speranza e la carità. Come dice don Tonino Bello, Maria ci insegna che “Chi spera, cammina, non fugge. Si incarna nella storia, non si aliena. Costruisce il futuro, non lo attende con pigrizia. Ha la grinta del lottatore, non la rassegnazione di chi disarma. Ha la passione del veggente, non l’aria avvilita di chi si lascia andare. Cambia la storia. Non la subisce. Ricerca la solidarietà con gli altri viandanti. Non la gloria del navigatore solitario” (A. Bello, Scritti, Vol. I, p. 232).

 

(fine prima parte)

 

A cura di Michele Illiceto

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