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Orta Nova, Vivere un’identità di genere diversa dal proprio sesso biologico

AUTORE:
Daniela Iannuzzi
PUBBLICATO IL:
29 Gennaio 2022
5 Reali Siti // Attualità //

Orta Nova – Avere un corpo che è maschio, o che è femmina, ma sentire dentro  di sé esattamente il contrario.

Accade a diverse persone. Ma pochi mostrano comprensione, rispetto e tolleranza. Molti fingono di non sapere o allontanano o insultano e parlano male. Come si trattasse di un reato o della peste nera.

Eppure  non si tratta di un capriccio. E nemmeno di una malattia.

Bensì di una condizione, che infatti nella più recente Classificazione Statistica Internazionale delle malattie e dei problemi sanitari correlati (ICD-11) è stata inserita in un capitolo specifico detto “della salute sessuale”.

Una condizione. Reale. Umana. Come tante altre.
Caratterizzata, per di più, da un’intensa e persistente sofferenza che scaturisce dal sentire la propria identità di genere – quella che corrisponde a comportamenti tipici dell’uomo o della donna – diversa dal proprio sesso biologico, da intendersi, invece, come l’insieme delle caratteristiche fisiche che contraddistinguono l’essere femmine o l’essere maschi.

Una condizione, questa, che si chiama disforia di genere.

Sono disponibili delle terapie per aiutare le persone con disforia di genere e queste sono sempre strettamente individuali, perché ciò che può alleviare le sofferenze di una persona può essere diverso da ciò che è utile ad un’altra.
Ad esempio, in alcuni individui può essere sufficiente modificare il proprio ruolo di genere, per iniziativa personale o tramite il supporto da parte dello psicologo; altri, invece, al fine di ridurre la propria sofferenza, hanno necessità di modificare il proprio corpo attraverso trattamenti ormonali e/o chirurgici.

Ed è, per alcuni versi, la storia di un giovanissimo di Orta Nova, nato femmina, ma che dentro di sé si è sempre sentito e si definisce maschio.
Oggi segue un percorso terapeutico, a carattere  psicologico e medico, che lo sta portando gradualmente a modificare il proprio corpo e a realizzare, così, a livello fisico, un processo di mascolinizzazione che gli permetterà di vedere corrispondere il suo sesso biologico con la sua identità di genere.

Come è cominciato tutto? Lo ha raccontato lui stesso a Statoquotidiano.

“Mi sembrava di abitare in un corpo che non corrispondeva a quello che io sentivo dentro di me, fin da bambino. Solo che non vi davo peso. Poi, crescendo, ho conosciuto delle persone, appartenenti al mondo degli Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali) e mi sono confrontato con loro. Così ho realizzato che in me c’era un’esigenza particolare. In realtà ho creduto, in un primo momento, di essere lesbica. Ma poi mi sono reso conto che non era quello”.

Così hai cominciato a parlarne con qualcuno? Con degli amici? Con i genitori?
“No. Ho lasciato passare del tempo. Anni. Perché volevo capire bene bene quello che provavo, quello che mi stava succedendo. E non volevo dare di me un’altra definizione sbagliata. Poi ho cominciato a parlarne con mia sorella, fino a quando ho deciso di aprirmi anche con mia madre e con mio padre. Tra i compagni della scuola che frequento ora, una scuola superiore fuori Orta Nova, al momento nessuno sa che sono nata femmina. Tutti mi accettano per quello che sono, ora. Non c’è bisogno che io dia loro spiegazioni. E questo mi fa stare bene, mi fa sentire amato per come io mi sento dentro.
Gli amici e i compagni della scuola che frequentavo prima, la scuola media, invece, conoscono il mio passato.
Ora anche i miei parenti sanno”.

Hai trovato un ambiente che ha accolto favorevolmente la tua condizione?
“In linea generale, sì. Più specificamente, devo dire, però, che alcune volte la situazione degenera.
Innanzitutto, perché nella scuola dove andavo prima, ho subito atti, gesti di intolleranza, insulti, nei confronti della mia persona. E poi perché anche da parte dei parenti, a volte, emerge una certa difficoltà ad accettare il mio cambiamento”.

Cosa potrebbe aiutarti? Cosa chiederesti agli altri?
“Non è facile gestire la disforia di genere. Semplicemente arriva. E fa sentire destabilizzati. Basterebbero, da parte degli altri, dunque, comprensione, delicatezza, rispetto per una condizione che non si sceglie, all’inizio, e che non si allevia da un giorno all’altro. Perché è una cosa che fa star male. È come un’influenza per la quale ci si cura e si prendono delle medicine. Solo che, nel caso della disforia di genere, le cure consistono in un percorso terapeutico di tipo psicologico e ormonale”.

Dove incontri le maggiori difficoltà?
“Dipende. Il malessere derivante dalla disforia mi assale spesso di botto e provoca in me cattivi pensieri, come “Io non valgo, io non sarò mai un uomo”. Cose così. Abbastanza sfiancanti. Dalle quali non sempre è facile riprendersi”.

Vieni seguito da specialisti nel tuo percorso?
“Sì. Da una specialista di Foggia ed una di Firenze.
A marzo dovrebbe cominciare il percorso farmacologico di mascolinizzazione. Ma ora mi stanno sottoponendo a diversi test per verificare se effettivamente io sono pronto per il cambiamento. Anche se io, in realtà, sono già pronto. E per verificare se lo sono i miei genitori”.

Vedere i propri figli vivere la disforia di genere, e nella condizione di chi esprime se stesso secondo un’identità diversa da quella biologica, per i genitori non è facile. Non lo è mai. Cambiare dall’oggi al domani richiede tanto amore, rispetto ed un profondo desiderio di anteporre la felicità dei propri figli a quella personale.

I genitori del giovane disforico ci stanno riuscendo, pur tra mille difficoltà, come la mancanza di solidarietà e di comprensione da parte di tanta gente che, nell’ apprendere la notizia, ha voltato loro le spalle, mostrando un atteggiamento di condanna, di non accettazione, di chiusura, di negazione non negoziabile.

Questi genitori non si sono arresi e, piuttosto, hanno aperto la strada al dialogo con il loro figlio.

Il dialogo su queste tematiche deve poter essere il più possibile esplicito, libero, manifesto, per quanto comprensibilmente difficile e spesso doloroso per il genitore. Dialogare apertamente è sempre un fattore protettivo del benessere del proprio figlio, che, nel processo di comprensione di qualunque suo aspetto di ambiguità o disforia, può e deve così contare su una maggiore condivisione di affetti e stati d’animo con i genitori.
Ogni pratica che va nella linea della repressione dura non solo non è etica, ma è anche inefficace quando non apertamente dannosa e controproducente.

Importanti sarebbero l’apertura e il senso di accoglienza anche da parte dell’intera società.
Si dovrebbe parlare della condizione della disforia di genere nelle scuole, nelle istituzioni, al fine di sensibilizzare le persone ed educarle a evitare discriminazioni senza giudicare, per capire, per imparare a non mettersi contro, a non abbandonare, a non camuffare situazioni di cui non ci si deve affatto vergognare. Perché la vita è varia ed è bella proprio per questo.

“Si fa tanto per avere dei figli. Ringraziamo Iddio quando li abbiamo” la madre del giovane “e amiamoli così come sono. Non bisogna vergognarsene, non bisogna buttarli fuori di casa se sono diversi da come li vorremmo, non dovremmo metterli da parte. Perché alla fine ci faremmo solo del male”.

Il protagonista della storia raccontata in questo articolo ha quasi quindici anni e, nel suo futuro, vorrebbe fare l’architetto. Vede al suo fianco le persone care e gli amici di ora nel suo domani “per un cammino molto lungo insieme”.

Una persona con i suoi sogni e la sua semplicità, che non toglie nulla agli altri, insomma. Come tanti. Da amare così com’è.

Daniela Iannuzzi

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“Dunque, s'è detto: il ragionier Fantozzi mette la casa. Io ho portato i liquori, il resto spetta lei. Scusi, eh?” (Gigi Reder - Rag. Filini)

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