È uscito da qualche giorno sulla piattaforma streaming Netflix “The Irishman”, l’ultima fatica firmata Martin Scorsese. Nelle ultime settimane, il nome del regista italo americano è rimbalzato ripetutamente sulle testate giornalistiche per le sue posizioni, dai più definite “scomode”, sull’exploit dei cinecomics e, più in generale, sull’industria cinematografica.
“Non è cinema, è come stare al luna park”
“Non è cinema, è come stare al luna park”, aveva confessato Scorsese, gettando una critica sulla serializzazione dei due colossi Marvel e DC: una riflessione su quanto l’esperienza in sala sia ormai dominata solamente da logiche capitalistiche, lasciando da parte l’essenza vera dell’arte cinematografica. Le sue parole sono state incomprese e bocciate come “snobismo”, “invidia da parte di un vecchio”. Sicuramente per un artista della sua età potrebbe essere più difficile appassionarsi a questa nuova tendenza pop (una posizione sacrosanta, il gusto personale non deve essere mai essere giudicato), ma il nucleo del suo discorso è quello più importante e, soprattutto, quello più vero, è un altro: lo dimostra il fatto che solamente Netflix, e non le maggiori case di distribuzione, ha accettato la grossa sfida di The Irishman, un’opera importante, coraggiosa, che richiede la massima attenzione dello spettatore per ben tre ore e mezza.
La pellicola riunisce tutti gli attori feticci di Scorsese
La pellicola riunisce tutti gli attori feticci di Scorsese: Robert De Niro, Joe Pesci e Al Pacino. Si tratta dell’adattamento cinematografico del saggio del 2004 “L’irlandese. Ho ucciso Jimmy Hoffa (I Heard You Paint Houses)” scritto da Charles Brandt e basato sulla vita di Frank Sheeran, sindacalista e mafioso statunitense. È il racconto di una vita deteriorata, spezzata, che con un climax discendente segue la parabola dello stile di vita di un gangster, archetipo simbolo della filmografia di Scorsese. Ed è proprio questa discesa, questo incalzante rallentamento, a trasformarsi nel simbolo di tutta l’opera omnia del regista. Come se, dopo anni e anni di sangue, rapine, risse e fughe rocambolesche, Martin volesse dirci: “Forse essere gangster non è così bello”. Dopo aver nutrito l’immaginario collettivo con scene epiche entrate prepotentemente nel linguaggio della cultura occidentale, il suo obiettivo qui è smontare pian piano ciò che ha costruito negli anni, senza lasciar spazio all’ironia o all’euforia. Una narrazione ridotta all’osso, così come la violenza, e una malinconia di fondo.
La storia ruota attorno a tre amici gangster e attraversa tutta la loro vita: gli appassionati del regista non faranno fatica a ritrovare citazioni e temi a lui cari. L’uso di CGI per ringiovanire gli attori potrebbe lasciarvi perplessi all’inizio, ma ci si abitua presto. Non c’è molto da capire, il mondo dei gangster in fondo è proprio questo. L’unico limite di questo film, forse, è proprio quello di essere su Netflix. Davanti al piccolo schermo è facile distrarsi. Sarà altrettanto facile per tutti desistere e spezzare la visione in due parti, ma questo ucciderà completamente l’esperienza di The Irishman. Il lato positivo, però, è che grazie a Netflix sarà possibile guardarlo in lingua originale con sottotitoli, in modo da apprezzare in pieno la recitazione dei personaggi (un Al Pacino in stato di grazia, forse la vera anima del film) e soprattutto la complessità idiomatica del film. Dopo tanti anni, ancora non ci si abitua all’emozione di vedere De Niro e Pesci parlare italiano.
È un sepolcrale finale di vita
Se vi aspettate un’epopea alla C’era una volta in America, questo film non fa per voi. Non c’è romanticismo, c’è solo morte. È un sepolcrale finale di vita. “It is what it is”, ripete Bufalino (Joe Pesci). Eppure, rientra sicuramente nella top 5 di Martin Scorsese.
A cura di Carmen Palma