Manchester (Vermont) – Una notizia che lascia senza parole il mondo del cinema e chiunque abbia seguito la carriera di una delle attrici bambine più intense degli ultimi anni: Sophie Nyweide, interprete di film come Mammoth e Noah, è morta a soli 24 anni. La scomparsa risale al 14 aprile 2025, ma è stata resa nota solo nei giorni scorsi attraverso un commosso necrologio pubblicato dalla sua famiglia, e riportato da testate come Variety e The Hollywood Reporter.
Nata l’8 luglio 2000 a Burlington, nel Vermont, Sophie era cresciuta con il cinema nel cuore. La passione le era stata trasmessa dalla madre, Shelly Gibson, ex attrice e proprietaria del cinema Village Picture Shows di Manchester – un luogo ormai chiuso, ma che aveva rappresentato per la giovane Sophie una sorta di “santuario” dell’immaginazione, dove i sogni si confondevano con la realtà dello schermo.
Il debutto nel mondo del cinema arriva prestissimo. A soli 9 anni, Sophie ottiene il ruolo che la farà conoscere a livello internazionale: interpreta Jackie, la figlia dei personaggi di Michelle Williams e Gael García Bernal in Mammoth (2009), il film in lingua inglese del regista svedese Lukas Moodysson. La sua performance, intensa e misurata, colpì critica e pubblico, anche grazie al modo in cui seppe restituire, con sguardo limpido e doloroso, la solitudine dei bambini trascurati da genitori assenti.
Il film fu selezionato per il Festival del Cinema di Berlino, e Sophie fu tra gli attori presenti alla prima internazionale. Nonostante la giovane età, dimostrava già una sorprendente maturità artistica. Negli anni successivi recitò in pellicole di rilievo, come I numeri dell’amore (2010) al fianco di Jessica Alba, La teoria delle ombre (2010) con James Franco, Il matrimonio di mia sorella (2007) di Noah Baumbach, e Noah (2014) di Darren Aronofsky, in cui appariva nel ruolo di una delle ragazze salvate sull’arca insieme al personaggio di Russell Crowe.
Ma dietro la promessa di una carriera luminosa, si nascondeva un mondo interiore complesso, tormentato. Lo raccontano le parole scelte dalla sua famiglia per annunciare la scomparsa: “Sophie era una ragazza gentile e fiduciosa. Scriveva e disegnava voracemente, e molta di questa arte raffigura la profondità che aveva, e rappresenta anche il dolore che ha sofferto.”
Un dolore che affondava le radici in esperienze personali difficili, su cui la giovane attrice aveva più volte riflettuto nei suoi scritti, senza però riuscire a trovare una via di uscita. “Anche con le diagnosi, le sue stesse rivelazioni, e il supporto di terapeuti, agenti delle forze dell’ordine, e persone a lei vicine, nessuno è riuscito a salvarla”, si legge ancora nel necrologio.
La famiglia ha voluto sottolineare che Sophie, nonostante tutto, non aveva mai perso la voglia di vivere, ma aveva scelto di curarsi da sola. Una scelta, questa, che si è rivelata fatale: “Si è curata da sola per affrontare tutti i traumi e la vergogna che si portava dentro, e questo l’ha portata alla morte. Ha ripetuto più volte che ‘se la sarebbe cavata da sola’ ed è stata costretta a rifiutare le cure che avrebbero potuto salvarle la vita.”
Un epilogo doloroso che solleva interrogativi, ma anche riflessioni profonde sull’assistenza alle persone giovani in difficoltà psicologica. Quella di Sophie non è solo la storia di un talento perduto, ma anche quella di un’anima sensibile, che ha cercato rifugio nell’arte, nella scrittura, nel disegno, senza riuscire a liberarsi da un dolore troppo grande.
Il cinema oggi piange non solo un’attrice, ma una voce giovane che aveva ancora molto da raccontare. Sophie Nyweide ci lascia una breve ma intensa eredità artistica e un monito: ascoltare più a fondo chi soffre in silenzio, riconoscere la fragilità anche dietro i sorrisi più dolci, e non dare mai per scontato che un talento precoce basti a guarire le ferite dell’anima.
Lo riporta l’adnkronos.