Questa scheda è spoiler-free: nel rispetto del lettore vergine della visione del film verranno isolate, nell’arco della recensione, eventuali rivelazioni critiche di trama (spoiler) su note a piè pagina, oltre a essere suggerito, a fine articolo, un indice della presenza di punti sensibili nell’opera il cui svelamento accidentale possa incidere su una sua corretta fruizione
Titolo originale: The Cabin in the Woods
Nazione: Stati Uniti
Genere: horror, commedia
NELL’inflazionato, commerciale e spesso appiattito genere horror, capita, talvolta, d’imbattersi in tentativi audaci, per soggetto o stile, o di veder riproposte soluzioni tenute normalmente a distanza per difficoltà di gestione. E’ quanto cerca di fare Drew Goddard, forte della sceneggiatura di Cloverfield, con il suo primo lungometraggio da regista, The Cabin in the Woods – da noi Quella casa nel bosco. Si parte con l’abusato incipit dei ragazzi che si allontanano dalla civiltà per una gita in una casa sperduta e si prosegue con disavventure da slasher anni 80.
Dov’è la novità?
Due sono le leve su cui scommette Goddard.
Innanzitutto ibrida horror con commedia dissacrante e grottesca, impegnandosi in un’operazione che conta rari colpi centrati nella storia del cinema. Come traccia guida mantiene separati i due fronti, relegando i momenti di tensione all’avventura dei ragazzi e lasciando andare la mano divertita sui dietro le quinte di ciò che accade, ma la linea di demarcazione non è netta ed il piano è intenzionale. Sono, così, subito evidenti le infiltrazioni di comicità negli accadimenti immediatamente attorno alle vittime, nello stesso modo in cui sarà dirompente […]1.
Funziona questa miscela? Se ci si limita alla struttura e al dosaggio della contaminazione si può essere indulgenti, e, fuori da essa, a tratti anche entusiasti per efficacia nei divertenti battibecchi tra gli impiegati. Lasciano a desiderare gli anonimi buffi dialoghi tra i protagonisti, invece, che hanno poco mordente e stancano subito per associazione con deja vu di B-movie di bassa lega. Ma è qui che arriva il signor Drew Goddard in soccorso e, proprio su questo terreno, non proprio ben concimato, furbescamente sfodera il secondo asso nella manica e ci dice che è tutto contemplato nel gioco che sta offrendo, cercando di rivendere patate per tartufi – e pare ce l’abbia abbondantemente fatta presso una larga utenza di horror-fan. Tutto il film è già in partenza – e lo diventa sotto gli occhi dello spettatore – un discorso metacinematografico sul genere che rappresenta, svelandone, tramite l’inconsueto plot, trucchi e artifici, decostruendo e ricostruendo la pasta delle centinaia di squallidi slasher che popolano le sale da quarant’anni, e ciò che è commerciale viene elevato a spiegazione e caricatura del commerciale con un pizzico di ironia. Il trash non è più involontario errore ma proposizione studiata del trash: non più attaccabile, dunque, la stupida fighetta (e la relativa interpretazione) giacché riproposizione di ciò che è diventato uno stile, ai limiti del neo-genere (si pensi alla produzione Troma); non più attaccabile la vergine […]2; non più attaccabili, in una sola parola, tutti i cliché che ormai attirano solo gli estimatori del B-cinema o i video-idioti da popcorn, perché, qui, proprio di questi cliché si parla, sopra di loro, si ride di loro, come padroni e manovratori ([…]3) e non più come umili servi in nome del botteghino.
Tutta l’analisi del film e i conseguenti schieramenti a favore o contro, in fondo, vertono su questo. Assodata e creduta l’intenzione di Goddard di sfornare un B-movie per parlare del B-movie – dunque mediocri stilemi come meta e non come risultato di alti obiettivi mancati – ci si chiede: fino a che punto l’illustrazione del topos non è scaduta nel topos? In altre parole: è sempre vero in questa singolare pellicola che l’espressione del “brutto” non è stata essa stessa brutta e mal proposta? Che il racconto del becero è stato esente dagli stessi errori di cui ci parla? E’ fin troppo evidente quanto un gioco di questa natura possa garantire ad un regista molte vie di fuga con l’auto-assoluzione per cui “se è un difetto, allora se ne sta parlando”, la stessa assoluzione che pare gli abbia consegnato la schiera di fan del genere – non fanno testo i non abitudinari, che probabilmente vedranno in The Cabin in the Woods solo una stupida sciocchezza.
No, parlare di B-movie non rende necessariamente una pellicola scevra dagli stessi difetti del B-movie né tanto meno automaticamente un A-movie. E non salva da quelli neanche un soggetto originale, insolito e accattivante, metacinematografico, che aiuta solo a bilanciare con efficacia le magagne di un lavoro anche ruffiano che l’ha spuntata. Sono tante le soluzioni che avrebbero meritato più cura senza che questo volesse dire uscire fuori dai preposti confini del prototipo “mediocre slasher da drive-in”, dai dialoghi alle interpretazioni, passando per i dettagli estetici.
Le vie di fuga, per chi vi scrive, sono chiuse e quel che resta è poca cosa. Chi non converrà su tanto, probabilmente non converrà neanche sulla differenza qualitativa con Shaun of the Dead di Wright, ma neanche coglierà appieno, uscendo dal genere, il lavoro di lettura del B-movie da parte di Pulp Fiction, da manuale su come il parlare di qualcosa di cinematografico possa essere assolutamente lontano dall’essere quel qualcosa.
Parte finale del film delirante, immaginifica e creativa, che, assieme al bizzarro soggetto e a qualche riuscito, dissacrante e divertente momento di trama, rende la visione potabile e spensierata.
Ma si eviti, per cortesia, di parlare di genio.
Please.
Valutazione: 5/10
Spoiler: 7/10
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[…]1 l’exploit horror nell’ultima parte tra i manovratori del “gioco”
[…]2 che sopravvive e salva il mondo – ma Goddard non la fa del tutto vergine e non glielo fa salvare, vendendo con astuzia un’altra patata!
[…]3 così come i tecnici esoterici