LE INDAGINI – Le prime indagini indipendenti per fare luce sulle conseguenze dell’incidente del 1976 furono avviate a fine anni Novanta su iniziativa di un caporeparto della Enichem, Nicola Lovecchio. A Lovecchio, nel 1993, gli (un fertilizzante) venne diagnosticato un tumore polmonare, tumore che l’oncologo Maurizio Portaluri (medico del capo-reparto Enichem) mise in relazione con il lavoro, svolto dall’operaio, al petrolchimico di Manfredonia. Da questo punto in avanti, Nicola Lovecchio decise di approfondire le cause che portarono all’avvenimento del fatto, “dedicando in questo modo tutto se stesso per ricercare una verità finale”. Lovecchio, a causa del tumore, morì nel 1997, ma le ricerche dell’uomo non furono, con certezza, vane: proprio dalle denunce di Lovecchio partì infatti il processo contro gli ex dirigenti Enichem, accusati della morte di ben 17 operai.
IL PROCESSO: “IL FATTO NON SUSSISTE: “Stamattina, alle 12, a Manfredonia il giudice monocratico, dottoressa Valente, ha pronunciato la sentenza di primo grado del processo alla Enichem . I dirigenti della multinazionale sono stati assolti perché «il fatto non sussiste». Il processo era iniziato da un esposto, nel 1996, alla Procura di Foggia, da parte di un operaio. Nicola Lovecchio. E dell’oncologo Portaluri, a seguito delle indagini e ricerche che avevano svolto. Il pubblico ministero Lidia Giorni, dopo cinque anni di indagini e riscontri, riuscì poi a far iniziare il processo. Nel 2001 prendono avvio le udienze, fitte di testimonianze e periti che ricostruiscono i fatti. Il capo d’imputazione è grave: omicidio colposo plurimo motivato dall’esposizione all’arsenico dei lavoratori dell’Enichem. Nel 1976 era scoppiata la colonna di lavaggio dell’ammoniaca, all’interno della quale erano contenute tonnellate di arsenico. Nell’immediato non fu resa chiara la gravità dell’incidente, e le operazioni di bonifica partirono con dieci giorni di ritardo. Gli operai e tutti gli addetti dell Anic andarono a lavorare regolarmente anche il giorno dell’incidente. Gli operai furono impiegati anche nelle operazioni di bonifica senza le dovute cautele. Ma soprattutto non furono informati precisamente sul rischio. Fu solo in seguito, a causa di valori di arsenico nelle urine elevatissimi, che iniziarono per loro i periodi di malattia. Nel processo, gli operai che si sono costituiti parte lesa sono 23, molti dei quali, oggi, deceduti o ammalati di tumore. Il processo è andato avanti in questi anni, con la signora Lovecchio, la vedova dell’operaio che ha denunciato tutto, in silenzio ad ascoltare, in aula, insieme ai parenti degli altri operai. Il processo di primo grado è durato sei anni, per le numerose perizie fornite da consulenti del pubblico ministero, e le contro-perizie dell’Enichem. Perizie che hanno cercato di far luce sui materiali impiegati nella produzione, i sistemi di sicurezza, ma soprattutto sull’esposizione all’arsenico e polvere di urea. Ma se la scienza è d’accordo, in maniera unanime, sulla natura cancerogena dell’arsenico, altrettanto non è per i periti dell’Enichem. I quali hanno anche ipotizzato, nel corso del processo che l’eccessivo tasso di arsenico nelle analisi fatte agli operai, non fosse legato all’esplosione né, tanto meno, ai processi produttivi, bensì alle loro abitudini alimentari. Un elevato consumo di crostacei e soprattutto di gamberi, hanno detto, è la causa dell’elevato tasso di arsenicure. Elevato consumo che secondo i periti dell’accusa si quantificherebbe in un chilo giornaliero, più meno. Di sicuro la spesa abituale per ogni operaio. Le ultime udienze sembrano esser state. Il giudice Valente nel maggio scorso nomina due superperiti: uno di dell’Universià di Napoli, l’altro di Salerno, ma con la peculiarità di essere padre e figlia. La perizia si è basata solo sugli atti forniti dall’Enichem, e non su quelli forniti dai consulenti del pm e degli avvocati dell’Accusa. Il risultato è immaginabile. Ulteriore svantaggio, le proposte di patteggiamento alle famiglie, costituitesi anche parte civile. Molte hanno accettato somme tra venti e settantacinquemila euro, a seconda del grado di parentela. La vedova Lovecchio e pochi altri hanno rifiutato. Di recente hanno patteggiato anche altre parti civili: I comuni di Manfredonia, di Mattinata e Monte Sant’angelo. A «guadagnare» di più è stato il comune di Manfredonia: 300 mila euro. Oggi, in un’aula gremita di persone come non se ne erano viste per anni, il giudice ha pronunciato la sentenza: tutti assolti perché il fatto non sussiste. Parole cadute, dopo due ore di attesa, nel silenzio più completo”, conclude Langiu. (Alessandro Langiu , da Carta – ottobre 2001). Nel 2008 i familiari di Lovecchio decisero di ricorrere in appello sostenuti da Medicina Democratica. Da segnalare delle ricerche negli ultimi anni di un gruppo di cittadini, tra i quali Giulio Di Luzio, autore del libro I fantasmi dell’Enichem: «Abbiamo raccolto la testimonianza di una donna che nell’agosto 1980 mise al mondo un bambino con il fegato praticamente liquefatto», dichiara Di Luzio. «I medici non riuscirono a spiegare il fatto, ma è possibile che la causa possa essere stata l’esposizione a una nube di ammoniaca fuoriuscita dagli impianti in un incidente avvenuto il 3 agosto 1980, mentre la donna era negli ultimi giorni di gravidanza» (elaborazione da Focus.it).