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Dal 2007 si cercano bombe nei porti pugliesi: l’Accordo di Programma, relazione Di Feo

AUTORE:
Giuseppe de Filippo
PUBBLICATO IL:
3 Febbraio 2010
Manfredonia //

NOTE

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Il PIANO DI RISANAMENTO AMBIENTALE – Dal punto di vista della legislazione vigente in materia di sicurezza (T.U.S. Dlgs 81/2008) l’ente pubblico o la stazione appaltante o il proprietario di una determinata area devono procedere ad una valutazione preventiva dei rischi residuali relativi ad una determinata lavorazione od ad un determinato intervento. Uno dei rischi residui di un’area progettuale oggetto di futuro intervento, spesso di natura invasiva sul piano campagna originario, è il rischio derivante dall’interferenza prodotta dalla potenziale presenza di ordigni esplosivi residuati bellici interrati. Un obbligo associato ad una responsabilità diretta sorge inequivocabilmente anche a carico dei progettisti, ingegneri ed architetti, derivante dalla mancata previsione di una specifica voce della tariffa professionale o dalla mancata diligenza nella predisposizione progettuale o dalla relativa mancanza di previsione espressa di tali attività in sede di progetto preliminare. Armonizzando la legislazione e le normative vigenti in territorio nazionale, al fine di definire l’ambito soggettivo della responsabilità diretta od indiretta, il processo decisionale per la corretta analisi, valutazione del rischio bellico e messa in sicurezza del sito di intervento, si sviluppa attraverso le seguenti attività, non ecessariamente consequenziali: a) analisi storiografica – un’ adeguata ricerca (analisi) storiografica intesa ad escludere che il terreno su cui insistono i lavori non sia stato interessato da eventi di carattere bellico rappresenta condizione sufficiente per determinare l’esclusione della responsabilità a capo dell’esecutore lavori e quindi la non imputabilità della responsabilità in capo al soggetto stesso, in quanto trattasi di causa imprevedibile. b) analisi obbiettiva strumentale – ad ulteriore consolidamento dei profili di imputabilità delle responsabilità e della riconducibilità del rinvenimento di ordigni bellici tra le cause imprevedibili e quindi tra le cause di forza maggiore, giova l’esecuzione di verifiche preventive sui terreni concessi mediante apposite strumentazioni di rilevamento, possibilmente a partire dalla verifica del piano campagna vegetale originario, documentate in apposito verbale (rapporto o relazione tecnica di attività) come elemento di possibile ulteriore prova della correttezza dell’operato delle parti in termini di responsabilità. c) bonifica ordigni bellici – ovviamente per quei territori che sono stati interessati da azioni militari terrestri od aeree documentate, per i quali, in assenza di significativi interventi di antropizzazione, non poteva escludersi la presenza di ordigni bellici inesplosi” si deve procedere con ’intervento di antropizzazione (messa in sicurezza convenzionale) previsto da normativa vigente, al fine di garantire il completo disinquinamento mediante la totale eliminazione di eventuali ordigni residuati bellici presenti in una determinata area. Tale attività è rappresentato dalla bonifica precauzionale da ordigni bellici autorizzata, normativata, diretta e collaudata dal Ministero della Difesa – Reparto Infrastrutture Ufficio Genio Militare, competente per territorio.
NOTE DEL TESTO

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[1]Ancora oggi, come scrive Di Feo nel suo libro, non si è riuscito a stabilire con esattezza quante armi chimiche siano state prodotte in Italia tra il 1935 e il 1945. Il piano varato da Benito Mussolini all’inizio della guerra prevedeva la costruzione di 46 impianti per distillare 30 mila tonnellate di gas ogni anno; i documenti britannici analizzati in questo libro – decine di file con rapporti segreti, relazioni diplomatiche, verbali di riunioni del governo, minute di interventi di Winston Churchill e altri atti riservati che riguardano un periodo dal 1923 al 1985 – sostengono che si possa trattare di una quantità «tra le 12.500 e le 23.500 tonnellate » ogni anno, ancor di più durante l’occupazione nazista del Nord. Si trattava di iprite, che divora la pelle e uccide togliendo il respiro. Di fosgene, che ammazza provocando emorragie nei polmoni. Di miscele a base di arsenico, che entrano nel sangue fino a spegnere la vita. A questo arsenale sterminato si sono aggiunte le armi schierate al Nord dai tedeschi e quelle importate al Sud dagli americani e dagli inglesi. L’ultimo saggio pubblicato negli Usa da Rick Atkinson sostiene che solo gli statunitensi dislocarono negli aeroporti del Sud 200 mila bombe chimiche. Fu proprio durante uno di questi trasferimenti nel porto di Bari, scrive Di Feo, che nel dicembre 1943 una nave piena di iprite esplose, contaminando acqua e aria: il disastro, “il più grave mai avvenuto nel mondo occidentale”, venne tenuto nascosto. Winston Churchill in persona ordinò di tacere, e in tal modo i feriti non hanno potuto ricevere cure adeguate. Ma dei cittadini baresi aggrediti dal gas non si è mai saputo nulla. “Quanti hanno ereditato leucemie, tumori, devastazioni ai polmoni? L’inferno di Bari è stato un danno collaterale nell’equilibrio del terrore”. Come è accaduto con le testate nucleari durante la Guerra fredda, tutti gli eserciti dovevano possedere armi chimiche per impedire che i nemici le usassero, temendo la rappresaglia. E come è accaduto per le atomiche, solo i capi di governo decidevano la sorte di queste armi che non dovevano cadere in mano agli avversari. Così fu Hitler a dare il via libera alla prima di tante operazioni nefaste: affondare nell’Adriatico oltre 4.300 grandi bombe tossiche. Grazie ai documenti degli archivi tedeschi sappiamo che si trattava di 1.316 tonnellate di testate all’iprite, gran parte delle quali si trovano ancora nei fondali a sud di Pesaro. Dopo il 1945 gli Alleati si liberarono del loro arsenale di gas e di quello catturato agli sconfitti. I files dell’US Army – documenti in parte ancora segreti – rivelano che molte decine di migliaia di ordigni chimici vennero inabissati in una «discarica chimica» nel Golfo di Napoli, davanti all’isola di Ischia. Lo stesso sarebbe accaduto in Puglia, partendo da Manfredonia, dove altre decine di migliaia di testate con veleni made in Usa furono “annegate”.

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[2]L’Acna di Rho ha convogliato i suoi scarichi nella falda idrica che scorre verso il centro di Milano, quella di Cesano Maderno ha contaminato la Brianza e sempre in Lombardia a Melegnano dai suoli della Saronio continuano a sbucare nuvole nocive. I dossier dell’intelligence britannica parlano di 60-65 mila tonnellate di armi chimiche prodotte a Rho, 50-60 mila tonnellate a Cesano Maderno, altre decine di migliaia a Melegnano. Il tutto secondo le priorità di guerra, scaricando fanghi e scarti nei fiumi e nei campi. I militari italiani per tutto il dopoguerra hanno protetto due stabilimenti di gas top secret: uno a Cerro al Lambro, davanti al casello milanese dove nasce l’Autostrada del Sole, l’altro aCesano di Roma, nel territorio della capitale. Sono stati smantellati soltanto nel 1979, senza notizie di un risanamento sistematico. Non si sa nemmeno se ci sia stata una bonifica dei laboratori sperimentali di via del Castro Laurenziano, nel cuore di Roma, accanto alle aule della Sapienza e ai condomini, dove si testavano i nuovi gas. Quando, dopo la caduta del muro di Berlino, i generali hanno deciso di abbattere le loro riserve chimiche, le sorprese non sono mancate. Tutti i governi italiani avevano negato la presenza di gas bellici sul territorio nazionale; Giulio Andreotti nel 1985 lo aveva addirittura ribadito davanti al Parlamento. E invece esistevano almeno tre bunker, ripuliti poi nel massimo segreto. Il più importante era sul lago di Vico. Un’installazione colma di misteri e pericoli: durante i lavori nel 1996 una nube di fosgene è scappata via e ha raggiunto la strada, aggredendo un ciclista. Quell’uomo è l’ultima vittima europea delle armi chimiche. Solo nel 1997 si è scoperto che l’Esercito aveva messo da parte almeno 150 tonnellate di iprite del modello più micidiale, mescolata con arsenico. In più c’erano oltre mille tonnellate di adamsite, un gas potentissimo ma non letale usato contro le dimostrazioni di piazza. E 40 mila proiettili chimici. Per neutralizzarli è stato creato unun impianto modello a Civitavecchia che imprigiona le scorie velenose in cilindri di cemento.

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“Possiamo scoprire il significato della vita in tre diversi modi: 1. col compiere un proposito; 2. con lo sperimentare un valore; 3. con il soffrire.” VIKTOR EMIL FRANKL

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