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GEMMELLARO Doppio Martini nel trevigiano

Illustri artisti omonimi: Alberto Martini nato il 1876 a Oderzo e scomparso a Milano il 1954, Arturo Martini nato il 1889 a Treviso e morto a Milano il 1947

AUTORE:
Ferruccio Gemmellaro
PUBBLICATO IL:
7 Giugno 2024
Cultura //

Illustri artisti omonimi: Alberto Martini nato il 1876 a Oderzo e scomparso a Milano il 1954, Arturo Martini nato il 1889 a Treviso e morto a Milano il 1947; notare anche la coincidenza dell’identica città terminale delle loro esistenze. Non erano legati da parentela e neppure da conoscenza sebbene ilpadre di Alberto avesse insegnato per qualche tempo disegno ad Arturo. Entrambi, distanziati di tredici anni di età, quindi, vissuti e operativi nella Belle Èpoque.

Alberto Giacomo Spiridione, riconosciuto tra i precursori del Surrealismo, si distingue immediatamente nel disegno e nella pittura e le sue opere sono altresì elencate nelle incisioni e illustrazioni. La madre Spineda de Cattaneis è di antica, nobile discendenza e il padre, artista seguace del Naturalismo, docente di disegno; c’è da aggiungere che la famiglia paterna conta decoratori e mosaicisti a Venezia, per cui Alberto prospera in ambiente di estetica strettamente raffinata.
Figlio d’arte in similitudine con Mozart, questi a sua volta nato ed educato tra le note musicali del genitore, il quale pare le facesse ascoltare quando ancora nel ventre materno; c’è da premettere in essi, Martini, tuttavia, una predisposizione intrinseca successivamente avvalorata da acquisito entusiasmo.
Alberto esordisce con gli acquerelli, raffigurando temi agricoli della sua terra, appoggiandosi al Simbolismo non rinnegando, però, la tradizione figurativa italiana; comunque sia, si propone con quattordici chine di suggestione nordica “Albo della morte”. Appena trentenne, tra le sue illustrazioni si evidenziano i capolavori in china per il “Morgante” di Pulci e per la “Secchia” di Tassoni.

È presente nella Biennale di Venezia il 1897 con il ciclo grafico “La corte dei miracoli” con il quale interviene a Monaco di Baviera e, successivamente, nel’99con il ciclo “Il poema del lavoro” nell’Esposizione Internazionale di Torino. All’aurora del nuovo secolo si dedica all’acquerello con una serie sulla Divina Commedia.

Nel 1904 si avvia all’estero, toccando Parigi, Monaco, Londra e qui organizza nel 1914 una personale nella Galleria Goip il sorretto dall’editore William Heinemam. Le sue opere sono ormai attese in patria, a Faenza e alla Biennale veneziana; a Treviso, trasferitosi con la madre dopo il decesso del padre, elabora alcune illustrazioni più significative per la tragedia “Amleto” e per le poesie di Verlaine. Nei primi anni della Grande Guerra esegue, oltre cinquanta litografie “Danza macabra”, imprimendovi la propria indole antiaustriaca. Nel ’17 a Bologna, attendendo la chiamata per il fronte, elabora delle straordinarie miniature in china e acquerello, le ballate “Lesorientales di Victor Hugo “.

A fine conflitto scopre il teatro e traccia oltre ottanta disegni per i costumi del “Balletto di cera”. La passione per il palcoscenico lo induce nel ’23 a inventare addirittura il Tetiteatro, una trasposizione scenica sulle acque, il cui titolo si richiama al mito di Teti, la madre di Achille; una originale idea che fa il giro del mondo.

Il suo talento giunge a scontrarsi coni giudizi della critica e, pertanto, preferisce ritornare a Parigi e qui la notorietà si espande con lavori surrealistici e vi rimarrà sino al ’34. L’indole raffigurativa si muta in una sorta di maniera nera e propone “Conversazione con i miei fantasmi”, “Fiore dello scoglio”, “La prigione sotterranea”.

Dal 1932 si rivela artista eclettico con una collana di progetti per piccole sculture in vetro. A Nancy riceve il diploma d’onore peri lavori esposti all’Esposizione internazionale exlibris e illustrazioni dei libri.

Rientrato a Milano, continua incessantemente a creare, e questa volta in pittura a olio, sino alla morte che lo coglie nel 1954.
A Treviso, nel Santa Caterina dei musei civici, è aperta sino al 28 luglio 2024 una ricca rassegna “Donna in scena”, il cui logo gli è dedicato, dove con il ferrarese Giovanni Boldini e il padovano Lino Selvatico è in esposizione una doviziosa sequenza a sua firma a partire dal 1911: il carboncino “Autoritratto”, i pastelli “Diana” e “Isotta”, la litografia “Ritratto di signorina”, “Ritratto di Maria Petringa” (suaconsorte in due opere), i pastelli “L’album di Daunier”, “Le tre sorelle” e il “Ritratto di Wally Toscanini” (logo della rassegna), “Ritratto del conte Emanuele Cstelbarco”, “Signorina con piume rosa”, il trittico “La marchesa Casaticome Cesare Borgia- … come capo Sioux-… come Euterpe”, l’olio “Couple”, l’acquerello “Sulle labbra il nome di Gesù” e il trittico della Donna in Alberto Martini : “La bellezza della donna-Madonna dell’infinito-Lacrime d’amore”. Qui l’artista appare evidente che rifugge da ogni tentazione verista, rifugiandosi in una assoluta immaginazione, sovente accomunante col grottesco.

“Artista cerebrale, invaghito dei simboli, delle allegorie e delle fantasie satiriche \…\” è il giudizio di Vittorio Pica, scrittore e critico.
Le sue opere, la vita, le peculiarità artistiche sono leggibili nella “Pinacoteca Civica Alberto Martini” di Oderzo.

Arturo Martini non ha discendenza gentilizia come il suo omonimo, viene al mondo, invece, da una famiglia disagiata: il padre Antonio è un cuoco e la madre Maria una cameriera. Ciò dimostra che non può essere del tutto vera la norma che il talento sorga e accresca nei cosiddetti “figli d’arte” o nelle famiglie tali da permettere gli studi ai loro giovani di tendenze professionali, oltremodo se artistiche.

Non solo: la precarietà economica in cui vive non tarda a ricadere nello studio e pertanto nel 1901 è espulso dalla scuola per reiterate bocciature.
Il destino, tuttavia, gli viene in ausilio: indirizzato a una scuola d’avviamento per ceramisti, presso la fornace Guerra Gregori, è avvinto sorprendentemente dalle figure plastiche e riesce ad accedere nello studio dello scultore trevigiano Antonio Carlini, frequentando simultaneamente l’Accademia della Belle Arti a Venezia. Antonio Carlini resta segnato come il maestro promotore del genio di Arturo Martini. Il Nostro, vieppiù, ha l’intuito di apportare una felice novità alla tecnica calcografica, che lo stesso definisce Cheramografia (Keramos vale terracotta in greco), così plasmando nel 1905 “Il ritratto di Fanny Nado Martini” e il “Busto del pittore Pinelli”.

A seguito della mostra a Ca’ Pesaro del 1908, guadagna in breve tempo quella notorietà che lo accompagna in una dimensione europea; eccolo, allora, a Monaco di Baviera e a Parigi dove espone al Salon D’Automne. A Roma, poi, avvinto dal Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti, il cui manifesto era stato pubblicato il 1909 nella Ville Lumière, partecipa all’Esposizione Libera Futurista del 1914 con il “Ritratto di Omero Soppelsa”.

Dopo l’interruzione forzata, dovuta alla Grande Guerra, riprende a operare e propone “L’amante morta”, “Fecondità” e “Il Dormiente”. Aderisce al movimento Valori plastici, collaborando alla rivista del piacentino Mario Broglio, artista ed editore, e si ritrova innamorato della” scultura antica”; accantonando di conseguenza il Naturalismo ottocentesco, modella “La maternità” nel ’25 e “Il Bevitore” nell’anno successivo, quando è finalmente accettato alla Biennale di Venezia. Prosegue nelle produzioni e nel ’27 inaugura una sua personale alla Galleria Pesaro di Milano; evidenziando una felice originalità di connubio tra l’antico e il moderno, realizza nel ’29 grandi sculture come “La Pisana” e “La tomba di Ippolito Nievo”. La Biennale di Venezia rompe oramai ogni indugio e gli procura, addirittura, una sala tutta sua.

Negli an ni Trenta sceglie delle sperimentazioni polimateriche di lavori in legno, pietra, creta, gesso e bronzo, con i quali si presenta alla Biennale veneziana, alla Triennale milanese e alla quadriennale romana ed è il periodo in cui crea le grandi sculture, quali il gesso “Mosè salvato dalle acque”, “La sete” in pietra e il bronzo “Ahena”. Non è finita: nel 1939 si avvicina alla pittura e ne espone opere con successo. “Sono felice-afferma-la pittura mi diverte e mi dà altre speranze che oramai la scultura non mi dava più”.

Dal ’42 è chiamato a insegnare scultura all’Accademia veneziana ma dopo due anni ne è sospeso per la sua datata adesione al fascismo, pur avendo pubblicamente dichiarato e scritto “Siccome morivo di fame con il giolittismo, ho creduto a questo movimento, cioè il fascismo”.
Dopo aver realizzato il “Monumento al partigiano Masaccio” (caduto), si spegne folgorato da paralisi cerebrale.
Opere di Arturo Martini sono visitabili nei musei civici di Treviso tra i quali “La Pisana”, “Venere” e “Adamo ed Eva”.

C’è da dire, in post-scriptum, che il cognome Martini contiene una fausta essenza artistica, infatti, non si dimentichino il senese Simone Martini vissuto tra il Duecento e il Trecento, pittore e miniatore considerato il contendente di Giotto; suo il polittico di Santa Caterina d’Alessandria, in tempera e oro, custodito a Pisa, Bruno Martini di Murano, pittore acquerellista con esposizioni personali interregionali, nel 1937 premiato nel concorso “Fadiga”, nel ’38 partecipa alla Quadriennale di Rom e nel ’41 è presente nella Biennale di Venezia.

In omonimia Martini se ne contano tuttavia almeno altri cinque, Britto, Fulvio, Nicola, Norberto, Renzo.

Ferruccio Gemmellaro
Meolo Città metropolitana di Venezia 6 giugno 2024

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