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Vite di lupara. Buscemi: in ogni parola il mio cuore

AUTORE:
Redazione
PUBBLICATO IL:
9 Marzo 2012
Cultura //

Una fase della conferenza stampa (st)
Manfredonia – MICHELA Buscemi, figlia del coraggio scrive: “Fu una sera di primavera, il 5 aprile 1976. Salvatore il primo dei miei fratelli fu ucciso a colpi di lupara”. La morte e la fame della Palermo del dopoguerra sono narrate attraverso il suo sguardo intenso di donna e di madre. Piovono così i ricordi e i suoni del passato, il cantico del suo cuore raggiunge così i nostri, ammutoliti dalle piaghe della sofferenza. Restano pagine bagnate dalle lacrime, lucenti come l’alba della ribellione interiore.


NONOSTANTE LA PAURA.
E’ un’opera scritta dal coraggio di chi non ha rinnegato la paura di perdere la propria vita sotto i colpi della violenza domestica e le minacce della mafia. Michela Buscemi si è costituita parte civile al primo maxi processo di Palermo per denunciare la morte dei suoi fratelli, Totò e Rodolfo.


L’INFANZIA PERDUTA.
Michela dichiara: “Ho scritto questo libro per i giovani, per dare un messaggio a chi soffre. Col nostro silenzio la mafia diventa sempre più grande. Come vincerla? Attraverso i piccoli gesti della vita quotidiana: dare precedenza nel traffico a chi ne ha diritto, fare lo scontrino, essere onesti con se stessi e con gli altri”. Le parole della narrazione si legano con la sua voce dal forte accento siciliano: “Era il 1947, avevo otto anni, quando iniziò la mia vita in quella casa senza cucina e senza bagno. Non avevamo né luce né acqua, usavamo il lume a petrolio, oppure una candela, si cucinava con il carbone”. Il buio e poca luce, così anche la sua piccola vita era povera degli abbracci dei genitori. Una povertà assoluta e spietata.

Descrive: “Volevo andare a scuola, ma i miei genitori me lo impedivano, dovevo restare a casa per accudire i bambini. Durante l’inverno eravamo senza scarpe, maglie e abiti, infreddoliti e affamati. Dovevo fare la servetta presso una famiglia, i miei genitori mi vendettero per un mese. Avvertii la prima volta la sensazione dell’abbandono”. In sala il silenzio.


LA VIOLENZA DEL PRIMO NEMICO: MIO PADRE.
“Linneda! Tua madre sta morendo, corri a comprare il ghiaccio!” gridò mio padre. Tornai a casa col ghiaccio. Mia madre stava morendo di setticemia. Eravamo dieci figli e in più ventisei aborti procurati. Quando il dottore e l’ostetrica uscirono, li guardai con odio, li ritenevo responsabili di tutti gli aborti di mia madre. L’ultimo aborto era di cinque mesi. Mia sorella di nove anni andò a curiosare. Il feto era piuttosto grande che lo sistemarono in una scatola di scarpe”. Michela Buscemi si racconta con disarmante semplicità: “Linneda, domani mattina alle cinque verrai con me a prendere il vino a Terrasini”.

Ero felice per questa proposta di mio padre. Ad un tratto fermò il motore e m’invitò a scendere. All’improvviso mi abbracciò stretta stretta. Cercava di baciarmi sulla bocca e continuava a biascicare parole all’orecchio. Con un braccio mi teneva e con l’altra mano si slacciava la cinghia dei calzoni. Mi misi a correre tra le lacrime. Feci un balzo sul muretto e gli gridai singhiozzando che avrei preferito morire sfracellata sulle rocce piuttosto che accontentarlo. Non era più mio padre, ma un nemico dal quale difendermi. Ogni notte dormivo con un coltello sotto il cuscino e un manico di legno”.


MATRI, MATRUZZI E MATRAZZI.
La morte ha sempre vegliato col suo sguardo cupo sulla giovane vita di Michela Buscemi che tentò il suicidio prima sorseggiando il petrolio della lampada, poi la candeggina. La ferma volontà di lottare ha prevalso sugli impeti del sopruso. “Era nel dicembre 1985 quando ricevetti la lettera per presentarmi al maxiprocesso. Incoraggiai mia madre a costituirsi parte civile. Poi mi confessò di avere paura e di non voler mettere piede in Tribunale. Era la madre vigliacca di sempre, incapace di difendere la famiglia e i miei fratelli prima da mio padre, ora dalla mafia.

Ci sunnu matri, matruzzi e matrazzi, recita un proverbio siciliano. Le matri sacrificano la vita per i propri figli, le matruzze sono povere dentro, incapaci di difenderli, le matrazze abbandonano i figli”. “Ho impresse nella memoria le testimonianze di Buscetta, Contorno e di Sinagra. Ricevetti diverse minacce da parte della mafia e restai sola contro tutti, compresa la mia famiglia di origine. Ora faccio parte dell’Associazione Donne contro la mafia e il Centro Impastato che mi hanno sempre sostenuto in questa battaglia”. Tra la solitudine e la solidarietà, tra la paura e il coraggio ritrovato Michela Buscemi insieme a numerose donne, ha continuato a lottare contro la mafia, sulle ceneri della morte ha preferito riscrivere la sua vita di donna. La forza delle parole ha imprigionato la paura, ha sconfitto gi assassini dei suoi fratelli, ha castigato il malaffare. Come di riflesso l’onnipotenza delle parole incute terrore alle bocche fumanti delle armi.


A MORTI RA MAFIA.
Un inno alla giustizia e alla speranza è la sua poesia “La morte della mafia”. L’altro giorno mi sono svegliata, sentivo una grande confusione intorno. Ho pensato . “Ne hanno ammazzato un altro”. Mi sono affacciata spaventata, ma ho visto un mare di gente che cantava felice. “Che succede?”. “Come non lo sai?” “La mafia è morta”! Vieni, scendi anche tu, stiamo celebrando i funerali. Questa volta non si piange, si ride e si canta. “Vieni, scendiamo a seppellirla!”.


mariapia.telera@statoquotidiano.it

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