Che l’Italia fosse il Paese dei paradossi lo si era capito. Ma che addirittura si debba assistere a scene in cui chi si macchia di parzialità giudichi “inutile” chi invece tenti di “informare” nel senso più vero del termine, sfiora il ridicolo. Pochi giorni fa il direttore del Tg4, Emilio Fede, uno “fedele” alla propria parzialità di informare da sempre, ha bollato Roberto Saviano come inutile: “Non è lui che ha scoperto la lotta alla camorra, non è lui il solo che l’ha denunciata, ci sono registi e giornalisti come lui e che sono morti. Lui invece è ancora protetto, superprotetto. Però non se ne può più di sentire che lui è l’eroe. Qualcuno gli ha pure offerto la cittadinanza onoraria… di che cosa? Non si capisce. Ha scritto libri sulla camorra e l’ha fatto tanta altra gente, senza andare sulle prime pagine, senza fare tanto clamore. Senza rompere. Senza disturbare la riflessione della gente. Un Paese come il nostro è contro la mafia, non c’è bisogno che ci sia Roberto Saviano”, sono le parole (purtroppo) famose del giornalista mediaset.
Roberto Saviano, il popolare scrittore di “Gomorra”, ha saputo invece parlare in maniera schietta, diretta, chiara, senza facili proclami o moralismi, come se quei boss, quella gente di cui ha parlato, se li trovasse lì in quel momento davanti a sè. Raccontando, facendo sapere alla gente, ha colpito la camorra su uno dei due punti cardini del suo potere: l’informazione. L’altro punto cardine, quello economico, non spetta a lui scardinarlo. Ciò è compito dello Stato, che sa e può, anzi deve, provvedere. Denunciare senza paura i soprusi, il male che questa gente ha fatto e continua a fare in quelle terre: ecco il merito di Saviano, ecco la sua “lezione sociale”. E a darcela non è stato un magistrato, nè tantomeno uno venuto dai “quartieri alti” della società o qualche signorotto che si spaccia per Vip. Al contrario, è stato uno di noi, uno che ha vissuto quelle situazioni che ha deciso poi con coraggio di tirar fuori. Dovrebbero tenerne conto i politici, troppo spesso più preoccupati di tutelare i propri giochi di potere, i propri interessi, piuttosto che coloro che danno benzina al loro motore, coloro grazie ai quali occupano poltrone e ruoli più o meno importanti, ovvero la gente comune. Dovrebbero tenerne conto coloro che ogni giorno vanno in Tv dinanzi ad una telecamera, celano dietro la parola giornalismo una informazione falsa e alla mercè del politico di turno. Ma dovremmo tenerne conto anche noi, sempre pronti a lamentarci su quello che non va, e poi timorosi o non propositivi nel risolvere i problemi.
Saviano ha avuto anche il merito di non far restare questa denuncia all’interno di “quattro mura”, ma di farla uscire fuori, affinchè tutti sapessero. Addirittura è rimbalzata al di fuori dei confini nazionali, tanto da ricevere premi ambiti e riconoscimenti prestigiosi anche dalla letteratura europea. Si è detto, tuttavia, che tutto questo non è necessariamente qualcosa di cui vantarsi: il portare alla luce i problemi, i mali della nostra società all’estero non dà lustro al nostro Paese. Questo è vero, ma lo è solo in una società che mira all’apparenza, capace di sfoggiare ( ed esportare ) meriti ma poi incapace a denunciare quello che non va per paura del giudizio degli altri. La gente di Casal di Principe, il paese “teatro” delle gesta dei Casalesi, e più volte chiamato in causa dallo stesso Saviano, vede questo scrittore un nemico, uno che ha scoperchiato verità scomode, anche per loro stessi. Si capisce, dunque, quanto la camorra sia infiltrata in questi territori. E si capisce, perciò, l’importanza di ciò che Roberto Saviano ha scritto. Una lezione vera, un riflesso di uno spaccato di vita sociale italiano, che non deve però restare un ricordo, ma che al contrario può essere un punto di partenza per combattere seriamente la camorra, muovendo le coscienze, e non solo, di molti di noi.