Anno scolastico siderale 2010/2011. Il nuovo diario di bordo è macchiato in copertina dagli schizzi ematici frutto della macelleria sociale che va sotto il nome semplicistico di “precarietà”. Va di tappa in tappa e ci va sempre più lentamente. Descrive di come le ricchezze divengano problemi e di come mai accada l’opposto. Per dire: succede che nella crisi non si trovi la forza di investire, ma non che all’aumento degli studenti extracomunitari o, comunque, stranieri, coincida un corrispettivo piano di revisione dell’oramai desueto sistema scolastico. Non c’è stata una scannerizzazione dei fenomeni potenzialmente stimolanti a punto tale da poter divenire slancio di rinnovamento. La scuola dei ministeri, la scuola della burocrazia, si è arenata di rimpetto ai numeri. Non ha fatto degli scogli un trampolino naturale, solo frangiflutti ordinati per mantenere la parte peggiore del vecchio status quo. Così facendo, ci si è trovati immersi in una scuola dei numeri. Cassaforte o salvadanaio nelle situazioni di emergenza. O, peggio ancora, una scuola della chiusura. Ermetismo in età globalizzata. Quella stessa globalizzazione utilizzata per smantellare il sistema educativo pezzo dopo pezzo, mattone dopo mattone, si è ritorta come un boomerang. Il mondo si apre e la scuola si chiude. Il caso della “Carlo Pisacane” di Roma, classi con un italiano ogni venti alunni stranieri, è la prova di quello che ci ritroveremo di fronte. Di sfide che non sono duelli, ma stimoli a cui rispondere. Insomma, la Capitanata, con le sue masse di migranti, con i suoi camminatori stagionali, con la sua fusione di culture, potrebbe divenire crocicchio e capolinea del cambiamento. L’integrazione deve funzionare da risposta automatica alla domanda di accoglienza, di educazione. Ed invece si persevera nell’indicare “a rischio” o, nel migliore dei casi, “di frontiera”, plessi a decisa presenza straniera.
Ma nel diario di bordo 2010/2011, proprio alla pagina numero 1, c’è l’evoluzione ovvia che la scuola ha intrapreso. La fotografia dal vero della gravità tumorale dell’educazione. Non già e non più luogo fisico – la scuola – e metafisico – la cultura, la conoscenza – di aperture e scambi, di biblioteche interculturali e lingue che si fondono, di colori e di tradizioni, di religioni e di modi di vestire, ma rivendicazione orgogliosa e tronfia del senso di comunità. Già. Perché nella scuola del 2010, nel mezzo degli stracci sporchi che volano nel sottoinsieme dei precari, messi l’uno contro l’altro dalla burocrazia, ci sono i simboli di demarcazione. Discussioni progettuali insabbiate ed insterilite dalla polemica. Fanfaronica – ci si faccia passare il neologismo – l’inaugurazione della scuola primaria di Adro, paesino di 7 mila abitanti del bresciano. L’edificio è stato dedicato a Gianfranco Miglio, padre ideologico della Lega Nord ed è cesellato, in tutta la sua strumentazione, dai banchi ai cartelli, dalle lavagne agli zerbini, dei simboli della stella delle Alpi. Passi il richiamo storico, ma si arresti quello politico. Fa pena leggere le dichiarazione della ministra che, di fronte ad uno smacco per lo Stato, la cultura e la decenza collettiva, si è limitata prima a redarguire il primo cittadino Oscar Lancini, onde poi strigliare, all’opposto, i luogotenenti della conservazione sinistrorsa i cui simboli, a suo dire, campeggiano da decenni nelle scuole. In verità, tranne che per qualche effigie di Karl Marx sui libri di filosofia, rare bandiere iridate della pace apparsa a sparuti balconi e l’ardire giovanile di qualche isolato capellone nell’indossare una t-shirt del Che, i muri sono un ribollire sconclusionato di crocifissi, cuoricini, iniziali d’innamorati e simboli fallici. A meno che la Ministra non eccepisca sulla simbologia di finestre rotte e porte scardinate, pareti scorticate e rubinetti d’acqua non potabile. Ma, anche di fronte a questa constatazione, Adro non solo non è la Barbiana di Don MIlani, dove il tenace sacerdote, stretto a tenaglia fra Democrazia Cristiana e Curia, si ribellava all’ignoranza rivendicando la preminenza della conoscenza, ma semplicemente non è classificabile neppure in quanto scuola. È, per dirla con Nichi Vendola, soltanto “una oscena forma di appropriazione messa in atto dalla cattiva politica nei confronti dello spazio pubblico”.
L’intera iconografia che si è voluta dare alla scuola primaria di Adro è indecorosa dal punto di vista istituzionale, politico, culturale e sociale.
Una strumentalizzazione ideologica in piena regola, certo, che va ad etichettare uno dei pilastri “sacri” di uno Stato,ovvero
l’istruzione.
Credo che la ministra Gelmini stia intervendo in questo senso proprio in queste ore, e bene fa.
La misura dello sconcerto e dell’indignazione sul territorio di ciò che è stato compiuto sarà il segno di quanto la gente si renda pienamente conto del valore simbolico improponibile di un’operazione con tali caratteristiche (qualunque bandiera politico/partitica fosse stata mai riprodotta in immagini nella scuola, e non solo quella della lega).
Temo di non aver voglia di scoprire in quanti si siano effetivamente indignati; ma spero vivamente di sottovalutare la coscienza civica ed istituzionale delle persone che abitano questo Paese che andrebbe amato molto, molto di più. Dai grandi simboli collettivi fino alle più piccole cose concrete.