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Cosa ci resta della morte di Francesco …

AUTORE:
Redazione
PUBBLICATO IL:
25 Giugno 2019
Editoriali // Foggia //

Non conoscevo Francesco Ginese ma tanti a Foggia lo conoscevano.

Amici coetanei e non, famiglie in qualche modo connesse tra loro per amicizia o per semplice rapporto di cordialità.

Foggia è una comunità non troppo grande, all’interno della quale, in alcuni ambiti di studio o di lavoro, ci si conosce un po’ tutti.

E tutti hanno appreso con sgomento prima del ferimento, poi della speranza di poter aiutare lo sfortunato ragazzo di 25 anni, donando il sangue, e, infine, della sua morte.

Anche i media a livello nazionale hanno riportato la notizia del decesso, anche per il contesto particolare in cui si è consumato il ferimento: l’interno della Università La Sapienza di Roma, conosciuta nel mondo e frequentata da studenti di tutta l’Italia, compresi i nostri.

Ma prima, come accade da qualche anno, il web ha anticipato notizie e commenti.

Che si sono divisi profondamente tra loro.

Il web è stato attraversato innanzi tutto da accorati appelli per la donazione di sangue in favore di Francesco, rese possibili non solo a Roma ma anche qui in Puglia, con le coordinate precise del luogo dove si poteva eseguire la donazione, quando ancora si sperava che il giovane potesse salvarsi.

E sempre il web lasciava trasparire il dolore per l’amico che versava in gravi condizioni.

Poi la notizia della morte, seguita dalla calma di chi non può più correre in aiuto e che affida ancora ai social (su cui si vive una forma di amicizia che nulla ha in meno rispetto a quella della vicinanza fisica) il profondo dolore e il grande sconforto di non aver potuto aiutare un amico molto amato.

Anche gli adulti, costernati, hanno utilizzatole pagine web per esprimere il loro dolore personale e quello che vedevano dipinto sui volti dei loro figli.

Il web è diventato il luogo dell’elaborazione collettiva del lutto per chi ha conosciuto e stimato e amato questo giovane. Senza distinzione di età.

Ma sul web si sono affacciati anche i commenti, distanti e distaccati, di chi si imbatte nella notizia ed è abituato ad esprimere il proprio parere, spesso dettato dalla reazione impulsiva del momento

Questo avviene per fatti del macrocosmo nazionale e del microcosmo delle piccole comunità.

E i commenti di chi “commentava”, appunto, la notizia in sé non sono stati teneri.

Si sentiva quasi la soddisfazione di chi ha pensato: se l’è cercata.

È naturale commentare così, in astratto, molte volte senza cognizioni di causa, quando si riflette su una realtà lontana.

Sono bastate le parole-chiave rave o notte bianca per etichettare la tragedia e addossarla interamente al ragazzo malcapitato.

Giudizi in qualche modo rafforzati anche dai media nazionali, che hanno dato diffusione molto ampia alla notizia della morte di Francesco, e dai commenti severi di personalità politiche circa i luoghi e i ritrovi giudicati decisamente pericolosi.

Certo La Sapienza confligge in sé con l’idea stessa di morte.

Tutti ne sono consapevoli; tutti cercheranno di capire la dinamica della tragedia e le eventuali responsabiltà: l’Università, le forze dell’ordine, gli organizzatori della serata.

Le ricostruzioni precise e ponderate sono il lavoro degli esperti.

Questo è invece il luogo e il momento della riflessione.

A caldo, c’è stata una insurrezione di tutti gli amici che, sulle loro pagine social, si sono ribellati all’idea di vedere presentato Francesco come un ragazzo sprovveduto, se non addirittura legato ad ambienti poco edificanti.

Una sollevazione che ha visto trasversalmente prendere la parola genitori e figli.

Da Martina, che ricorda come sia pura ipocrisia immaginare uno studente sempre al lavoro, parassita dei propri genitori, verso cui non sente alcun senso di responsabilità. Non è così, afferma Martina: anche il suo papà da ragazzo cadde e si ruppe la testa facendo l’equilibrista su un cancello; ma questo non ha fatto di lui uno scellerato.

Alla insegnante che lo aveva conosciuto e apprezzato tanto da piccolo, che gli chiede scusa per tutte le cattiverie che ne offendono ora la memoria, e che esprime con forza il suo sdegno verso chi, non avendo visto come lei le grandi qualità emerse nel carattere di Francesco fin da bambino,  ha osato dubitare dell’educazione ai valori della vita che una sana famiglia gli aveva saputo trasmettere.

Ma così è, da sempre.

Si corre il rischio di far dimenticare agli altri una vita preziosa per un solo gesto sconnesso.

Chi ha ragione? Forse un po’ tutti.

Chi lo ricorda come la persona preziosa che era deve testimoniare questo dato e non perché si deve parlar bene di chi viene a mancare ma perché bisogna testimoniare semplicemente il vero.

Ed è altrettanto vero che tutti noi genitori di figli lontani siamo spesso contenti anche del mantra “nessuna nuova, buona nuova”.

Perché sappiamo che, al di là degli insegnamenti e delle raccomandazioni che come madri e padri rivolgiamo ai nostri figli, la vita è irta di trappole.

E non c’è nessun segnale di avvertenza.

Nemmeno per i giovani bravi, buoni, intelligenti.

Il pericolo si annida nel dare per scontato qualcosa. Un’amicizia, un luogo, un gesto.

E ogni genitore sa che con i figli deve cercare quotidianamente il giusto equilibrio fra consentire loro di sperimentare la libertà con i suoi rischi e la naturale dose di preoccupazione, soprattutto se sono lontani.

Si placheranno gli animi. Questo è certo.

Si accetterà il dolore.

E ,come sempre accade, questa morte non sarà stata invano.

Nessuno dei suoi amici, ora ribelli e infuriati contro la vita e contro giudizi ritenuti insopportabili, dimenticherà la circostanza che è stata fatale per una brava persona.

E insieme al ricordo scatterà automaticamente una più sana prudenza.

Perché attraverso il dolore si impara.

Anzi, si impara soprattutto attraverso la sofferenza, secondo un grande che molti di loro studiano e commentano, il poeta, Eschilo, che analizzava la funzione catartica del dolore tre millenni fa.

Intanto io oggi, mentre mio figlio si allontanava da casa per raggiungere il luogo dove vive, non ho provato nessuna esitazione nel dirgli: abbi cura di te.

 

Maria Teresa Perrino

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