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PADRE PIO Stimmate e bandiere rosse. Il “Padre Pio” di Abel Ferrara. Il mistero e una santità difficile

Padre Pio muore nel settembre del 1968. Decine di migliaia di persone al funerale. Eppure sembrava chiudersi un’era

AUTORE:
Paolo Cascavilla
PUBBLICATO IL:
26 Luglio 2024
Cultura // Gargano //

Padre Pio muore nel settembre del 1968. Decine di migliaia di persone al funerale. Eppure sembrava chiudersi un’era. Intorno si respirava ansia di rinnovamento e cambiamento. Nei registri dei visitatori di quei giorni si potevano leggere innumerevoli, commossi ricordi del frate, ma anche “provocazioni” per un mondo terreno più giusto. Allora sembrava il “santo” di un’altra Italia, che non sarebbe sopravvissuto al mondo nuovo che si preparava.

Un frate su un asinello si arrampica per un pendio arido, con un sole opaco, attraversato da nuvole. “So che hai versato lacrime. So che continui a piangere ogni giorno per l’ingratitudine dell’uomo. Tu scegli le anime e, nonostante io non sia degno, hai scelto me per aiutarti… So che mi darai ciò ci cui ho bisogno. So che non lo negherai. Ho bisogno di coraggio”. Sono parole d’inizio del film, mentre giunge al piccolo convento, posto sopra il paese.

S. Giovanni Rotondo. Stanno arrivando i reduci, i mutilati, si accertano i morti e quelli di cui non si sa nulla. La guerra è finita. Contenuta e momentanea è la gioia, nessun premio per i vincitori. Padre Pio nel convento combatte con il demonio che lo accusa di aver disertato, di essersi sottratto alla guerra e alla storia. Nel paese ci sono altre morti, Nella mia infanzia ho ascoltato i racconti dei reduci e quelli di famiglie intere che in due o tre giorni scomparivano. Privazioni, fame… si diceva. Era la “Spagnola“. Non se ne parlava, ma ne uccise più della guerra. Il film racconta la miseria estrema, lo sfruttamento, i proprietari (per i quali nulla era cambiato), e i miserabili, i “cozzi”, così erano chiamati quelli che stanno sotto i cafoni. Ed emerge un racconto corale, parallelo a quello di Padre Pio.

Un paese tra i più poveri e arretrati del Gargano. Ora quei miserabili si organizzano. Arrivano gli echi della rivoluzione russa, ma restano sullo sfondo. I socialisti sono ascoltati: il voto, il sogno di un riscatto, cambiare il destino, issare la bandiera rossa sul Comune. Il film ricostruisce emozioni, sofferenze, speranze di quel piccolo paese e la mescolanza di attori professionisti e non dà il senso d’una forza collettiva ingenua primitiva. La reazione si organizza, ci sono agenti provocatori, i carabinieri arrivano da Foggia. Si spara sulla folla: 14 morti e una sessantina di feriti. Il frate piange e soffre, nella sua cella vicino al Crocifisso.

Un paese la cui storia unitaria si era aperta con un altro eccidio nell’ottobre del 1860 (nei giorni del plebiscito voluto da Garibaldi): 24 liberali furono imprigionati e uccisi. La “plebaglia borbonica”, dicono i cronisti, sparò prima dalle finestre, poi trucidò tutti a colpi di accetta. L’esercito garibaldino, giunto da Foggia, mise le cose a posto: numerosi i condannati a morte e gli incarcerati. “Un’intera classe dirigente cancellata”, dicono gli storici.

Shia Labeouf è un Padre Pio “autentico”. L’immagine del frate è accostata continuamente al Crocifisso con un montaggio nervoso, spezzato. Infine appare la Croce senza il Cristo, il frate piange, una mano si posa sulla sua spalla. Con Padre Pio in lacrime si apre e si chiude il film. La disperazione trova sollievo; i dubbi, le inquietudini si fondono con le miserie, i dolori della popolazione intorno, dove Dio pare lontanissimo. “Pensi che gli ultimi 5 anni sono stati brutti? Vedrai i prossimi 20!”. E’ la voce del demonio. Ma noi non li vediamo. Né quelli e nemmeno gli anni dell’apoteosi.

Per il regista americano un film “obbligato”. Padre Pio lo ha “tentato” per la sua santità difficile, piena di sospetti, misteriosa. Abel Ferrara (d’origine italiana), sempre affascinato da chi vive ai margini, ha affrontato in tutti i suoi film il problema del male. In “The Addiction“, che conclude la trilogia del peccato, una ricercatrice entra in un gruppo di succhiatori di sangue… Un film sulle dipendenze, tutti siamo dipendenti e tutti come cura scegliamo altri vizi, accumuliamo esperienze… “Pecco ergo sum“, dice Kathleen, la protagonista lucida e rassegnata, si arrende al peccato perché comprende che non c’è redenzione. L’assenza di Dio ora si trasfigura nella mano divina che consola. Padre Pio sceglie, ha consapevolezza e coraggio, e potrà dire: “Confiteor ergo sum“.

Un uomo difficile, irascibile. Non faceva nulla per farsi amare. Ho due personali ricordi di Padre Pio. Avevo 7 – 8 anni. A metà anni ’50. Nel vecchio convento, un corridoio stretto, che piegava ad angolo retto, lì vidi un uomo allungato per terra, Padre Pio se ne accorse all’ultimo momento, si tirò indietro di scatto: “U’ pacce, vattinne (pazzo, vattene)”. Mi spiegarono che in quella posizione avrebbe potuto baciargli i piedi mentre passava. L’altro, qualche anno dopo. Mi trovavo nella sacrestia, Padre Pio entrò sorridente, improvvisamente sul tavolo due persone srotolarono tanti fogli… si allontanò, irritato, borbottando: “Ma che ne capisco io!”. Erano di Barletta, dove pochi mesi prima era crollato un edificio. Rimasi dispiaciuto per quella scontrosità e ruvidezza, che oggi mi sembra autenticità.

Il film, presentato a Venezia due anni fa, ora è al festival di Taormina, ed è nelle sale da alcuni giorni. A Manfredonia gli spettatori erano 6 il primo giorno e così in quelli successivi. Abel Ferrara ha parlato di Cristo popolare, delle sue “lettere bellissime”, del suo carisma (ascolto, empatia…). Nessuna curiosità è sorta. Eppure il film potrebbe aprire molte discussioni.

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