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Perchè no alla legge Bavaglio, le proteste in Puglia

AUTORE:
Redazione
PUBBLICATO IL:
29 Maggio 2010
Editoriali //

emiliano (images-srv.leonardo.it)
emiliano (images-srv.leonardo.it)
Manfredonia – IN democrazia è fondamentale il sistema di controlli e contrappesi, costituzionalmente previsti, all’esercizio del potere. Due di questi controlli sono oggi messi a repentaglio dal disegno di legge Alfano sulle intercettazioni (Alfano) Norme in materia di intercettazioni telefoniche: uno è il controllo sociale, che viene esercitato da un’opinione pubblica informata; l’altro è il controllo di legalità, affidato ad una magistratura libera ed indipendente, e dunque efficace. Se il potere politico si sottrae a questi due controlli, da un lato negando il diritto dei cittadini all’informazione, e dall’altro togliendo ai magistrati la possibilità di indagare, quel potere diventa incontrollato e la democrazia lascia il posto alla “tirannide della maggioranza”. Viene da un magistrato simbolo della lotta al terrorismo e alla mafia, Giancarlo Caselli, oggi Procuratore Capo di Torino, la rappresentazione più chiara dello scenario che si presenterebbe in Italia qualora dovesse diventare legge il famigerato ddl intercettazioni. Uno strisciante colpo di stato , una pericolosissima violazione della Costituzione e dello Stato di diritto, scenario in cui a perderci sarebbero tutti, con le sole eccezioni della Casta politica e degli autori dei reati, mafia in primis.

Da qui le proteste: non è solo la FNSI (Federazione nazionale Stampa Italiana) sul piede di guerra, ma anche l’Anm (Associazione nazionale Magistrati), le opposizioni parlamentari, l’associazione funzionari di Polizia, il popolo Viola, tutti ugualmente impegnati in presidi ed iniziative. Aumentano anche le critiche internazionali al ddl Alfano: dopo la preoccupazione degli Stati Uniti per le sorti delle indagini giudiziarie del Belpaese, l’Istituto Stampa Internazionale ha rivolto un appello al Parlamento italiano affinchè non approvi una legge definita “uno schiaffo sfrontato al giornalismo libero”.

LE ULTIME MODIFICHE AL DDL ALFANO – Dopo la provvida eliminazione dell’irrazionale limite degli “evidenti indizi di colpevolezza” per autorizzare le intercettazioni ( si è tornati alla formula attuale dei “gravi indizi di reato”), il ddl Alfano è nuovamente cambiato. Sono 11 gli emendamenti firmati dai vertici dei gruppi di Pdl e Lega al Senato, Maurizio Gasparri e Federico Bricolo, dal presidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama Filippo Berselli e dal relatore Roberto Centaro. Una delle modifiche prevede l’applicazione del ddl anche ai processi in corso alla data di entrata in vigore della legge. Altra modifica concerne l’ammorbidimento delle sanzioni a carico degli editori: la pena massima sarà di circa 309 mila euro e non più 465 mila.

Ma la novità di maggior rilievo è data dal cd Lodo Bongiorno, ovvero la possibilità di pubblicare gli atti di indagine (almeno) per riassunto (rispetto alla norma che vietava qualsivoglia pubblicazione di atti d’indagine fino alla chiusura delle indagini preliminari), fortemente voluta dai finiani e introdotta dal presidente della commissione Giustizia della Camera Giulia Bongiorno. In riferimento all’emendamento salva-cronaca il Pd ha commentato che qualche miglioramento è stato fatto, ma “è proprio l’impianto della legge che è sbagliato”.

Tra gli undici emendamenti non c’è quello sulle intercettazioni ambientali, che avrebbe dovuto consentire di mettere le cimici senza che il pm sia costretto a dimostrare che in quel preciso luogo c’è “il fondato motivo di ritenere” che si sta commettendo un reato. E ancora è rimasta inalterata la norma D’Addario che vieta ai privati di registrare i colloqui cui partecipano.

L’opposizione presenterà lunedì in aula circa 280 emendamenti, annunciando battaglia. Se il leader dell’Idv Antonio Di Pietro minaccia di utilizzare lo strumento del referendum, l’europarlamentare Luigi De Magistris deposita un’interrogazione in Europa.

IL NO DELL’ASSOSTAMPA PUGLIA – Giornalisti e parlamentari pugliesi hanno discusso ieri del ddl intercettazioni in un incontro organizzato e voluto dall’Associazione della Stampa di Puglia. Lo slogan fatto proprio dall’Assostampa di Puglia è emblematico: “Sì alle regole, no al bavaglio. Le notizie non sono mai un reato“. “L’equilibrio necessario e imprescindibile fra diritto all’esercizio dell’azione giudiziaria, diritto alla riservatezza e diritto di cronaca non puo’ risolversi nell’approvazione di norme che penalizzano chi ha il dovere di informare l’opinione pubblica. I giornalisti riconoscono che, spesso, si e’ andati oltre il diritto di cronaca, pubblicando atti irrilevanti ai fini delle inchieste giudiziarie e riguardanti soltanto la vita privata di persone estranee alle indagini. Per questa ragione propongono al Parlamento di istituire un’udienza filtro in cui, nel contraddittorio fra le parti processuali, si decida quale sia la parte delle intercettazioni rilevante ai fini dell’inchiesta, e quindi suscettibile anche di pubblicazione, e quale debba essere invece distrutta perche’ irrilevante. I giornalisti concordano anche sulla necessita’ di prevedere strumenti sanzionatori piu’ efficaci e tempestivi, diversi dal carcere, per coloro che non rispettano le regole, investendo di maggiori responsabilita’ l’Ordine professionale o istituendo un Giuri’ per la lealta’ dell’informazione che si pronunci entro tre giorni in tutti i casi di violazione della privacy. Il tutto, nell’interesse esclusivo dei cittadini, il cui diritto fondamentale a conoscere e sapere i fatti di rilevante interesse pubblico e’ un diritto vitale e irrinunciabile da cui dipende il corretto funzionamento del sistema democratico”. Nell’incontro si è parlato delle modifiche al ddl intercettazioni volute dalla maggioranza di centrodestra che verranno presentate in Aula lunedì, quando inizierà l’iter parlamentare.

Proprio in relazione a tali modifiche il presidente dell’Assostampa di Puglia, Raffaele Lorusso, ha affermato che sul ddl Alfano “sono stati fatti passi avanti ma non sono ancora sufficienti”. Dal canto suo, Paola Laforgia, presidente dell’Ordine dei giornalisti pugliesi, ha difeso la categoria ricordando che “nel 90% dei casi le notizie pubblicate sono contenute nei provvedimenti di custodia cautelare, che sono atti pubblici”.

L’APPELLO DI EMILIANO – Anche il sindaco di Bari Michele Emiliano in prima linea per combattere il ddl intercettazioni. Alla presenza di diversi consiglieri comunali e del presidente dell’Assostampa di Puglia, Raffaele Lorusso, Emiliano ha presentato ieri le iniziative del Comune di Bari “per salvaguardare l’autonomia, l’indipendenza e l’efficacia del lavoro della Magistratura e la libertà di stampa”, ovvero una raccolta firme e un presidio democratico. Emiliano ha spiegato i motivi della mobilitazione: “Le intercettazioni e la libertà di informazione sono al centro dell’investigazione penale ed è necessario che questo continui ad esistere. Diciamo no alla legge della casta che vuole ostacolare le indagini sulla corruzione e limitare la libera informazione. Una vera e propria legge ad personam, anzi ad castam, che tutela la privacy dei delinquenti e distrugge il lavoro dei magistrati e dei giornalisti.” Per poi concludere: “La nostra città lotta da tempo per la legalità ed i risultati si sono avuti soprattutto grazie ad una capacità investigativa delle Procure che hanno utilizzato i mezzi a loro concessi per il raggiungimento della verità, per cui non si devono mettere bavagli alla giustizia. Le intercettazioni sono uno strumento fondamentale che non si ha motivo di temere se si ha la coscienza a posto. Né si può pensare di limitarne l’utilizzo a fini investigativi mascherando quest’azione come una legittima difesa della privacy e dell’onorabilità delle persone in caso di pubblicazioni imprecise o parziali (problema che comunque esiste e va affrontato)”.

Questo il testo del documento per la raccolta firme: Il disegno di legge intercettazioni così come presentato dal governo e approvato dalla commissione Giustizia del Senato, rappresenta una minaccia per il buon esito delle indagini contro la criminalità, la corruzione, la mafia e per il diritto/dovere di informazione da parte degli organi di stampa.

In sintesi:
1. per compiere l’intercettazione non basterà più il solo GIP ma sarà necessario un Collegio di Magistrati;
2. non si potrà più registrare una conversazione con un proprio interlocutore senza rischiare fino a 4 anni di carcere;
3. non si potranno più intercettare per più di 75 giorni indagati per reati ‘satellite’ della mafia come l’estorsione;
4. non si potranno più mettere le ‘cimici’ senza avere prima la certezza che in quel luogo si sta commettendo un reato;
5. il PM non potrà più rilasciare dichiarazioni e dovrà lasciare il fascicolo se denunciato;
6. sarà necessaria una autorizzazione anche quando si intercetta un indagato che conversa con un parlamentare;
7. non si potranno più pubblicare in versione integrale le intercettazioni e, tantomeno per riassunto, le trascrizioni delle telefonate;
8. i giornalisti non potranno più pubblicare notizie e atti di inchieste fino al termine dell’udienza preliminare;
9. le TV non potranno più riprendere un magistrato all’interno do un palazzo di giustizia;
10. se una delle parti rifiuta il consenso non si potrà più riprendere un dibattimento;
11. sarà vietato dare notizie su qualsiasi atto fino alla fine dell’udienza preliminare.

Tutto questo è inaccettabile!
La città di Bari si mobilita per salvaguardare l’autonomia, l’indipendenza e l’efficacia del lavoro della magistratura e della libera stampa.
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4 commenti su "Perchè no alla legge Bavaglio, le proteste in Puglia"

  1. Editoriale stampa. Censura o Giornalismo fascista ???

    Art. 21 Cost., “libertà di manifestare il pensiero”, sì, ma solo per i giornalisti (fascistizzati).

    Questo afferma il dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ed autore del libro “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”.

    In tema di intercettazioni da più parti si solleva il problema della libertà di espressione del proprio pensiero, costituzionalmente garantito.

    I Magistrati vorrebbero il libero arbitrio sul loro uso a fini investigativi. Nel mucchio si cerca la prova per manifestare un reato, spesso ad uso di lotta politica, invertendo l’ordine della giustizia, ossia: prima la denuncia di reato, poi la prova della sua fondatezza.

    I Politici vorrebbero l’assoluto impedimento sul loro uso, per garantirsi l’impunità.

    I giornalisti vorrebbero il totale uso, sia a fini investigativi che informativi, affinché siano liberi di allestire gogne mediatiche e di sbattere i mostri in prima pagina.

    Nessuno che chieda al cittadino, intercettato e sputtanato, spesso senza che ci sia reato, cosa pensa.

    Tutti parlano e sparlano, nessuno ascolta la voce del popolo.

    Quindi ecco il vero problema: c’è libertà di parola??

    L’art. 21 della Costituzione stabilisce che: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.

    La Corte di Cassazione italiana ha recentemente stabilito una serie di requisiti affinché una manifestazione del pensiero possa essere considerata rientrante nel diritto di critica e di cronaca: veridicità (non è possibile accusare una persona sulla base di notizie false), continenza ed interesse pubblico. Se si tratta di fatti personali, anche se veri e continenti, non dovrebbero essere pubblicati. Al riguardo operano i limiti previsti dai reati di diffamazione ed ingiuria. In generale costituiscono un evidente limite al diritto di cronaca anche l’onorabilità e la dignità della persona. Tutto ciò è diventato sempre più vero dopo la legge sulla privacy del 1996. Chi è coinvolto in procedimenti giudiziari non potrebbe essere fotografato in un momento in cui è sottoposto a carcerazione. Allo stesso modo il nome e le immagini di minori sono oscurati dal 1996.

    Quindi, il diritto di manifestare il proprio pensiero si concretizza nella libertà di critica, di informare ed essere informati. La libertà di informare e la libertà di essere informati danno luogo al c.d. diritto all’informazione.

    Circa le modalità di esternazione del pensiero, anche critico, la Cassazione ha affermato che esso può manifestarsi anche in maniera estemporanea, non essendo necessario che si esprima nelle sedi, ritenute più appropriate, istituzionali o mediatiche, ove si svolgano dibattiti fra i rappresentanti della politica ed i commentatori. Diversamente, verrebbe indebitamente limitato, se non conculcato, il diritto di manifestazione del pensiero che spetta al comune cittadino.

    Inoltre, sempre la Cassazione, ha affermato che la critica può esplicarsi in forma tanto più incisiva e penetrante, utilizzando anche espressioni suggestive, quanto più elevata è la posizione pubblica della persona che ne è destinataria.

    Questo è quanto scritto nelle norme superiori, ma di fatto, poi, il sistema ti dà e il sistema ti toglie.

    Carlo Ruta è uno storico siciliano che l’8 maggio 2008 è stato condannato per “stampa clandestina” perché proprietario di un sito internet, che faceva informazione civile senza che fosse stata eseguita la registrazione presso la cancelleria del Tribunale di Modica. La violazione è quella dell’art. 16 della legge 47 del 1948 che riguarda principalmente i giornali cartacei, ma che è stata in questo caso applicata al web e ai blog. Negli Stati Uniti d’America, il primo emendamento della Costituzione, che protegge la libertà di stampa, tutela anche blog e altri website “amatoriali”. In Italia i blogger, come ultimo baluardo di verità, rischiano ogni giorno di essere querelati o addirittura incriminati per diffamazione a mezzo stampa, processo che può essere chiesto anche, pretestuosamente, da personaggi dichiarati colpevoli in sede penale e condannati a lunghe pene detentive anche per fatti gravissimi.

    Questo cosa vuol dire?

    Vuol dire che nell’Italia repubblicana “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” solo se si manifesta sulla stampa periodica.

    La stampa periodica e gli altri strumenti di informazione vengono imbrigliati dalla legge sulla stampa (L. n. 47 dell’8 febbraio 1948), nella quale i due cardini sono la creazione del direttore responsabile e l’istituzione dell’Ordine dei giornalisti ( L. n. 69 del 1963). I criteri ispiratori della legge sono quel «senso altissimo di responsabilità» di cui ha parlato Mussolini alla prima riunione dei giornalisti fascisti, e la «prevalenza della libertà dello Stato su quella del cittadino» sbandierata da Amicucci, segretario del sindacato nazionale fascista dei giornalisti, che prende il posto della disciolta Federazione della stampa.

    Altro problema si è posto con la nascita dell’emittenza privata e con le radio e telegiornali diffusi dai privati e per questo la legge 14 aprile 1975 “Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva” ha sancito con l’articolo 7: “Ai telegiornali ed ai giornali radio si applicano le norme sulla registrazione dei giornali e periodici contenute negli articoli 5 e 6 della legge 8 febbraio 1948 n. 47, i direttori dei telegiornali e dei giornali radio sono, a questo fine, considerati direttori responsabili”. Con il programma radiotelevisivo di approfondimento informativo si analizza una notizia che ha già formato oggetto di cronaca, quindi acquisita dal telespettatore, allo scopo di garantirgli un’adeguata informazione su un fatto di indubbio interesse pubblico. Un contenitore molto gradito al grande pubblico è il talk show, dove il conduttore, generalmente in piedi, è idealmente circondato dai partecipanti. Introdotto il tema della trasmissione, il conduttore dà via al dibattito, ponendo domande alle quali i partecipanti rispondono esponendo le loro tesi.

    Nel programma di approfondimento informativo l’obiettivo primario del giornalista conduttore è dissipare ogni dubbio facendo emergere la verità. Di conseguenza, presenterà il fatto così come accertato attraverso inchieste, testimonianze, provvedimenti giudiziari, documenti, fonti ufficiali, etc. Ricorrerà all’ausilio di soggetti dotati di una particolare competenza sul tema da trattare. Insomma, dovrà favorire la relazione del telespettatore al fatto.

    Qui il giornalista conduttore produce informazione. Ha un ruolo attivo nel programma e ne è il protagonista, parte essenziale del contraddittorio. Può, anzi, deve interrompere, contraddire l’ospite, che fa affermazioni non rispondenti al vero, avendo unicamente la funzione di relazionare il telespettatore alla realtà. Quando il suo atteggiamento è a ciò finalizzato, il giornalista conduttore non può mai essere tacciato di “faziosità”, perché garantisce l’obiettività dell’informazione.

    Ma negli ultimi anni è andata manifestandosi la tendenza a far prevalere sull’accertamento della verità il punto di vista, la valutazione, la posizione soggettiva di chi partecipa al programma. Tendenza marcata nei programmi informativi a contenuto politico. Qui l’aspetto dell’inchiesta giornalistica è marginale, a volte assente. I protagonisti del programma sono i soggetti politici, rappresentati nel rispetto del principio del pluralismo, ma che nella maggior parte dei casi sono, per ovvi motivi, portatori di un interesse incompatibile con l’interesse della collettività ad acquisire il fatto nella sua completezza ed obiettività.

    Da più parti si attribuisce il fenomeno ad una precisa scelta delle testate e degli stessi giornalisti conduttori, che volutamente rinunciano ad approfondire il fatto per dare spazio alle voci dei politici. E’ anche vero, però, che una simile conduzione è sostanzialmente imposta dalle norme che negli ultimi periodi si sono incaricate di disciplinare il sistema radiotelevisivo, in gran parte emanate dalla Commissione Parlamentare di Vigilanza, organo di natura indiscutibilmente politica, visto come sono nominati i suoi 40 membri (pariteticamente dai presidenti di Camera e Senato, ma scelti tra tutti i gruppi parlamentari).

    Quindi, per manifestare il proprio pensiero bisogna essere giornalisti. Inoltre, la maggior parte delle agenzie di stampa, dei giornali e delle televisioni sono di proprietà editoriale privata. Molto spesso questo proprietario è un partito, oppure sono gestiti da grandi gruppi economici e finanziari che esercitano ogni tipo di influenza. Quando la proprietà è pubblica, essa è in mano agli schieramenti politici. Da qui l’espressione di lottizzazione del sistema informativo pubblico: fazioso e disinformativo.

    Quale libera informazione può essere fornita da soggetti prezzolati dall’economia (proprietà o pubblicità) o genuflessi alla politica, alla magistratura, o all’Ordine che ne detiene l’Albo.

    “All’albo siam fascisti” è un contributo sul tema di Rinaldo Boggiani.

    Furono i Gesuiti, nell’Ottocento, a proporre che i giornalisti fossero obbligati ad iscriversi ad un Albo professionale. Da allora…

    L’istituzione di un sistema che selezioni coloro che possono scrivere sulla stampa periodica, è nei programmi politici dei gesuiti.

    “Il giornalismo non ha nessuna garanzia” scrive Civiltà Cattolica il 4 dicembre 1883. E ancora nel 1913: “Il peggio è che la professione di giornalista è libera nel suo esercizio da qualunque impaccio, non richiedendosi né prova d’idoneità, né abilitazione, né garanzie di moralità, Insomma di tanti esami e patenti, la stampa n’è affatto immune. In nome del popolo sovrano ogni educatore deve possedere il suo certificato in carta bollata, dal dotto universitario al sottomaestro di villaggio. N’è fornita perfino la suora che vigila sui marmocchi nei giardini d’infanzia; solo il grande pulpito della pubblicità è libero; qualunque mestatore o farabutto può salirvi in veste da profeta per esprimere la sua opinione”.

    “Con l’istituzione dell’Albo professionale” scriverà Ermanno Amicucci, il proponente della legge che istituisce Ordine e Scuola di giornalismo, futuro Segretario Generale del Sindacato Nazionale Giornalisti, ultimo direttore del Corriere della Sera dell’era fascista, “il Fascismo ha risolto questo problema: che usurpatori non autorizzati s’impadroniscano d’un potere. Non sarà più possibile d’ora innanzi fare del giornalismo, l’agognato refugium peccatorum, il comodo asilo di tutti i profughi, il ricorrevo di molti spostati; per esercitare la professione di giornalista, a norma delle disposizioni contenute nel regolamento per l’Albo, occorrerà possedere ben determinati titoli culturali e morali”.

    Art. 7 legge 31 dicembre 1925, n. 2307: “È istituito un ordine dei giornalisti che avrà le sue sedi nelle città ove esiste corte d’appello”. L’albo risponde a un’ideologia di vertice, di controllo, di comando, di pianificazione quindi, che i fascisti accolgano l’idea dei gesuiti, non fa certo meraviglia, anzi è la conferma che un’organizzazione dall’alto non può rinunciare a un tale controllo.

    Con la caduta del fascismo, la neonata democrazia avrebbe dovuto abolire l’albo, metterlo fra i tristi ricordi della follia totalitaria: quelli da far studiare ai ragazzi per alimentare la memoria storica.

    Ma gli obiettivi politici della nuova classe dirigente, erano altri. Come cancellare un tale strumento di potere? Un veloce maquillage e voilà, il gioco è fatto. I giuristi, quelli che vivono all’ombra della sedia del principe, si misero al lavoro cambiando alcune parole.

    Così l’art. 4 del regio decreto del 26 febbraio 1928, n. 384: “L’albo dei giornalisti è composto di tre elenchi, uno dei professionisti, l’altro di praticanti, il terzo di pubblicisti”, diventò l’art. 1 della legge repubblicana del 3 febbraio 1963, n. 69: “È istituito l’ordine dei giornalisti. A esso appartengono i giornalisti professionisti e i pubblicisti, iscritti nei rispettivi elenchi dell’albo”.

    E ancora: Regio decreto 26 febbraio 1928, a. 1: “Presso ogni sindacato regionale fascista dei giornalisti esistente nel regno è istituito l’albo professionale per i giornalisti. I giornalisti che siano residenti nelle colonie, sono iscritti nell’albo professionale di Roma”. Legge repubblicana del 3 febbraio 1963, n. 69, a. 26: “Presso ogni Consiglio dell’Ordine regionale o interregionale è istituito l’albo dei giornalisti. I giornalisti che abbiano la loro abituale residenza fuori del territorio della Repubblica sono iscritti nell’albo di Roma”.

    Ecco fatto: tutto come prima. Oggi ci ritroviamo a rimpiangere le libertà del ‘800.

    “Albi di giornalisti!” ha detto Luigi Einaudi, “Idea da pedanti, da falsi professori, da giornalisti mancati, da gente vogliosa di impedire agli altri di pensare con la propria testa. L’albo è un comico non senso, è immorale perché tende a porre un limite a quel che limiti non ha e non deve avere, alla libera espressione del pensiero”.

    Ritorniamo sul problema: non si sa mai che ci sfugga qualcosa. Si può giustificare l’Ordine dei giornalisti in un sistema democratico, e può continuare in democrazia un istituto voluto da un regime totalitario?

    In merito all’Ordine dei giornalisti, cosa ne pensa la Corte Costituzionale?

    “La legge istitutiva dell’Ordine”, ha detto il giudice che doveva ripulire l’ordinamento dalle invenzioni fasciste, “disciplina l’esercizio professionale giornalistico e non l’uso del giornale come mezzo di manifestazione del pensiero, sicché, esso non tocca il diritto di manifestare liberamente il pensiero che l’articolo 21 della Costituzione riconosce a tutti” (sentenza n. 11 del 1968). Concetto scombinato: da una parte l’esercizio professionale dall’altra l’uso del giornale.

    Se l’Ordine dei giornalisti non ha alcuna legittimazione democratica; se la sua istituzione è storicamente e logicamente fascista, quale giustificazione danno, a quali argomentazioni affidano la propria difesa i vertici dell’Ordine stesso?

    Le argomentazioni sono di questo tenore: “L’Ordine significa il riconoscimento giuridico della professione di giornalista. L’esame di Stato è prescritto dall’articolo 33 della Costituzione. Senza esami e senza titolo chi lavora nelle redazioni si riduce a essere un impiegato o un mestierante. Senza la legge istitutiva dell’Ordine verrebbe meno, inoltre, l’obbligatorietà giuridica di osservare regole etiche”.

    Primo: sono argomentazioni già sentite. “Il Sindacato Nazionale Fascista dei Giornalisti si propone di tutelare gli interessi morali e materiali dei professionisti della categoria”.

    Secondo: l’art. 33 della Costituzione al comma 5 dice: “È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale”. Non dice altro. Dal testo della dichiarazione, detta e scritta in più occasioni, sembra che la Costituzione legittimi l’Ordine.

    Terzo: “l’obbligatorietà giuridica di osservare regole etiche”, risponde solo a un’ideologia totalizzante; è un ossimoro, cioè un serpente logico che si mangia la coda, del tipo libertà obbligatoria. “La libertà di stampa” dichiarò infatti il Duce, al primo Congresso del Sindacato Nazionale Fascista dei giornalisti in Campidoglio nel gennaio 1924, “non è soltanto un diritto, è un dovere”.

    L’Ordine, insomma, è a tutela della moralità e professionalità del giornalista.

    “L’Ordine dei giornalisti” dicono i vertici istituzionali dell’Ordine “è a garanzia dell’indipendenza”.

    Secondo il rapporto del maggio 1994 della organizzazione privata americana Freedom House sulla libertà di stampa nel mondo, l’Italia figura all’ultimo posto tra i paesi industrializzati a causa dell’intreccio fra media, potere economico e potere politico.

    Mettere i giornalisti davanti al fenomeno Tangentopoli è come sparare a un morto: dove erano i giornalisti mentre il sistema imputridiva? Cosa scrivevano quando tutti sapevano tutto? In un sistema democratico il giornalista controlla tutti. In Italia tutti controllano i giornalisti.

    E veniamo, per chiudere il cerchio, ai circoli della stampa. “Ciascun Sindacato regionale fascista” scrive l’on. Amicucci “ha istituito uno o più Circoli della Stampa, luoghi di riunione in cui i giornalisti raccolgono intorno a sé la parte più eletta del mondo intellettuale della città”.

    E così ancora oggi. “L’episodio più vergognoso dell’intera vicenda Tortora è forse rappresentato dall’accorrere della Napoli bene al Circolo della Stampa per la presentazione del libro “Gianni il bello”, autobiografia di Giovanni Melluso (uno dei pentiti autoaccusatosi di traffico di droga per poter accusare Tortora) dettata da questo personaggio a una signora, congiunta di un alto magistrato. Attorno alla depositaria della preziosa narrazione fecero ressa magistrati, consorti dei medesimi, direttori di giornali, uomini di mondo e di affari, cortigiani vari”.

    “I Circoli della Stampa” scrisse l’on. Ermanno Amicucci, “hanno una funzione ricreativa e culturale”. Grazie dell’attenzione.

    Presidente Dr Antonio Giangrande – ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE

    http://www.controtuttelemafie.it

  2. PUBBLICA MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO DEI MILITARI

    Tutti i cittadini hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, lo prevedono l’art. 21 della Carta Costituzione e l’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

    Ai militari sono imposti limiti nell’esercizio del diritto di pubblica manifestazione del pensiero non soltanto sugli argomenti, che a mente della legge 3 agosto 2007, n. 124, giustificano il segreto di Stato o la riservatezza, ma altresì sugli argomenti a carattere riservato ove la loro diffusione arreca – al pari di quanto avviene per le notizie sottoposte a segreto di Stato o riservate – un concreto pregiudizio.

    Con il Codice dell’Ordinamento Militare, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 106 del 8-5-2010 – Suppl. Ord. n. 84 e che entrerà in vigore il 8 ottobre 2010, la norma ha subito delle modificazioni, vediamo che cosa cambia:

    Norma vigente
    L’art. 9 della legge 11 luglio 1978, n. 382, così recita:

    1. I militari possono liberamente pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione.

    Norma futura

    L’art. 1472 del nuovo Codice dell’Ordinamento Militare, così recita:

    1. I militari possono liberamente pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare, di servizio o collegati al servizio per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione.

    La norma restrittiva sostanzialmente è uguale ed ha meglio specificato che il carattere riservato deve essere necessariamente unito almeno ad una delle seguenti casistiche: 1.interesse militare, 2.al servizio, 3.collegato al servizio, per chiedere preventivamente l’autorizzazione a divulgare il proprio pensiero in pubblico, comportando una immutata mitigazione tra la tutela della manifestazione del pensiero dei militari e il riserbo sulle questioni militari; di fatto confermando il parere n. 1741 del 27 maggio 2003 del Consiglio di Stato – Sezione Terza, loddove precisava che “deve trattarsi anche di fatti non necessariamente riservati ma tuttavia afferenti interessi collegati e pertinenti ai servizi di istituto, essendo la sopra richiamata norma proposta non tanto per tutelare la segretezza di singoli atti o notizie, quanto a difesa dell’Istituzione, tenendo conto delle ripercussioni che possono derivare dalla trattazione in pubblico di argomenti incidenti su interessi di servizio (es. l’ordine pubblico)” … “la doverosità della preventiva autorizzazione per le interviste con uno o più giornalisti, assumono particolare rilievo quando l’interessato parla quale rappresentante dell’Arma e non a titolo personale”.

    I principi esposti -secondo il partito per gli operatori della sicurezza e della difesa (PSD)- evidenziano quindi, che i militari nell’esercizio delle funzioni devono adottare un modus operandi diverso dal comune cittadino, ovvero devono chiedere l’autorizzazione a manifestare pubblicamente il proprio pensiero anche su argomenti a carattere riservato, oltre al riserbo assoluto sugli argomenti segreti o riservati, rendendo difficile o addirittura impossibile l’esercizio di un diritto fondamentale in un suo atteggiamento essenziale.

    Antonio De Muro- SEGRETARIO PSD-PUGLIA

    Per chi si aspettava dal Codice dell’Ordinamento Militare un incremento della democraticità ordinamentale nel senso della valorizzazione delle libertà la delusione è stata rinnovata!

  3. IL SEGRETARIO POLITICO DEL PSD INTERVIENE SULLA MISSIVA DEL GENERALE IADANZA

    Roma, 2 luglio 2010

    Ho letto con un certo sconcerto le fantasiose affermazioni di tal generale dei Carabinieri Massimo Iadanza, relativamente al diritto di iscrizione dei militari ai partiti politici. In una missiva inviata al Consiglio Intermedio di rappresentanza, l’ufficiale, citando con un corsivo virgolettato una frase che egli attribuisce al Gabinetto del ministro della Difesa, afferma che “l’iscrizione ai partiti politici, ancorchè – in sè – non vietata, è da intendersi assorbita dal divieto di esercito di attività politica”.

    Difficile trovare una tale concentrazione di falsità e di manipolazioni della realtà in una sola frase!

    Innanzitutto, il Generale – bontà sua – dovrebbe sapere e far sapere ai sottoposti che il diritto di iscrizione ai partiti politici è sancito dalla Costituzione per tutti i cittadini (militari inclusi) e può essere abolito solo con una legge ordinaria dello Stato che, per inciso, non esiste e non è mai esistita. In mancanza di tale legge nessuna norma e nessun regolamento, può assorbire un diritto costituzionalmente garantito.

    Questo se lo segnino bene il generale e tutti i membri del Gabinetto del ministro, La Russa in testa.

    Ma la tracotanza del generale sembra non conoscere limiti. Si legge infatti nella missiva che “la sola presenza di un certo numero di militari tesserati di un partito potrebbe consentire di argomentare in ordine all’espressione di preferenza politica nella Compagine militare”. Siamo grati al generale per l’uso del condizionale, perchè altrimenti ci dovrebbe spiegare come fa a conoscere il numero dei tesserati militari nei partiti politici italiani e, soprattutto, qual’è il suo personale metro di valutazione politica in ordine al tesseramento dei carabinieri. Deciderà lui qual’è la quota di tessere oltre la quale si passa da un’adesione legittima ad un partito “all’espressione di preferenza politica della Compagine militare”? E poi siamo decisamente curiosi: tutti i carabinieri che si sono iscritti ad un partito hanno mandato al generale una lettera per informarlo?

    Ma il prosieguo della lettera dell’alto ufficiale assume toni che non esito a definire di gravità inaudita. Si legge infatti che “è, dunque, comportamento suscettibile di assumere rilievo sotto il profilo disciplinare, per violazione, fra tutte, della fattispecie regolata dal n°9 dell’allegato “C” al D.P.R. n. 545/86″.

    Si passa quindi dalle stravaganti interpretazioni di norme costituzionali alla minaccia diretta di gravi sanzioni disciplinari, segnatamente quella fattispecie punibile con la consegna di rigore.

    Informiamo da subito il generale Iadanza del fatto che il PSD (partito per gli operatori della sicurezza e della difesa) assumerà ogni iniziativa giudiziaria-politica volta a stigmatizzare l’arbitrarietà delle sue dichiarazioni, nonchè a sottoporle al vaglio della magistratura penale ordinaria e militare, affinchè verifichi la sussistenza delle minacce e delle intimidazioni – nemmeno tanto velate – nella lettera da lui inviata al Consiglio Intermedio di Rappresentanza, organo che rappresenta migliaia di militari.

    Dal punto di vista squisitamente politico, poi, la missiva del generale Iadanza esprime tutta la preoccupazione degli stati maggiori (maggiori di chi?, verrebbe da dire) per la nascita e lo sviluppo, finalmente, di un vero collettivo politico come il PSD, che legittimamente rappresenta i bisogni non solo del personale che indossa una uniforme (quindi dello stesso Iadanza), ma di tutti quei cittadini che si fidano di coloro che le regole le rispettano davvero.

    E’ opportuno a questo punto, per completezza di informazione, richiamare di seguito, in maniera analitica, le norme che regolano i rapporti tra militari e politica:

    – Art. 49 della Costituzione: Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale

    – Art. 98 della Costituzione: I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione. Se sono membri del Parlamento, non possono conseguire promozioni se non per anzianità. Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero. (come abbiamo accennato, mai nessuna legge è stata promulgata che vieti o limiti ai militari il diritto d’iscriversi ai partiti politici)

    – Art. 6 L. 382/78: questo articolo, che a nostro avviso è stato scritto con perfetto buon senso, stabilisce al comma 1 che “Le Forze armate debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche”. Ma quando il militare rappresenta le Forze armate? Lo stabilisce il successivo comma 2 il quale richiama il precedente art. 5 che recita:

    a. svolgono attività di servizio;

    b. sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio;

    c. indossano l’uniforme;

    d. si qualificano, in relazione a compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali.

    Quindi, il militare che NON sta svolgendo attività di servizio, NON si trova in un luogo militare o comunque destinato al servizio, NON indossa l’uniforme e NON si qualifica come militare (se sta svolgendo un compito di servizio), può liberamente partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché svolgere propaganda a favore o contro partiti,associazioni, organizzazioni politiche o candidati ad elezioni politiche ed amministrative, senza temere nessuna ripercussione in ambito disciplinare.

    Il Segretario politico del PSD Giuseppe Paradiso

  4. IL PSD DENUNCIA UN GENERALE DEI CARABINIERI

    Roma, 13 lug 2010 – Nel corso di questi ultimi giorni, Giuseppe Paradiso e Giorgio Carta, nelle rispettive qualità di Segretario Politico e Presidente del Partito per gli operatori della Sicurezza e della Difesa – PSD, hanno presentato una denuncia alle Procure della Repubblica presso il Tribunale penale di Padova e presso il Tribunale penale militare di Verona contro il Generale di corpo d’armata dei Carabinieri che aveva prospettato la possibilità di avviare procedimenti disciplinari di rigore nei confronti dei militari che si fossero iscritti ad un partito politico (vedasi comunicato stampa del PSD datato 2.7.2010).

    La circolare in questione, illegittima fin dal titolo («Limitazione al diritto di iscrizione ai partiti politici, applicabili ai militari di carriera in servizio attivo») – si legge in una nota diffusa dal PSD -, culminava nella minacciosa avvertenza che l’iscrizione ad un partito ««è, dunque, comportamento suscettibile di assumere rilievo sotto il profilo disciplinare, per violazione, fra tutte, della fattispecie regolata dal n°9 dell’allegato “C” al D.P.R. n. 545/86».

    «E’ il casus belli che attendevamo – osserva Giuseppe Paradiso – troppe volte avevamo ricevuto segnalazioni di minacce di superiori verso i militari intenzionati ad iscriversi al PSD o, comunque, ad altri partiti politici. Questa è l’occasione per far accertare definitivamente l’infondatezza di una leggenda metropolitana liberticida che ha avuto fin troppo seguito».

    «Con la denuncia – aggiunge l’avvocato Giorgio Carta – intendiamo riaffermare il principio per cui i militari sono cittadini a tutti gli effetti e, quindi, titolari dei diritti che la Costituzione riconosce loro. Qualsiasi militare che avesse osato proporre la medesima denuncia sarebbe stato immediatamente perseguitato e, pertanto, ce ne siamo incaricati personalmente, a nome del PSD».

    Il PSD si riserva di costituirsi parte civile nel processo penale che dovesse scaturire. «L’eventuale risarcimento del danno ottenuto – conclude Giuseppe Paradiso – sarà devoluto proprio alla pubblicizzazione dei soprusi quotidianamente subiti dagli uomini in divisa».

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