È il terrazzano elettrificato, convertito alla globalizzazione, il Cappellone delle Croci nel bel mezzo di Trafalgar Square, Pasquale Casillo e Zdenek Zeman allo United, la Tamma nel centro produttivo di Hollywood. Tutti i detti, infatti, sono tradotti in inglese. Of course. Un miscuglio di grammatica vera e presunta, maccheronicismi impuniti da dover mantenere la pancia. E se la traduzione non c’è, ebbene, basta sottrarre l’ultima vocale e la magia della conversione è bella e fatta.
E nel calderone di fb c’è l’ombelico dauno. Dal primo, pioneristico e mitico “The apples, the pears, the bananas…The grave” (tradotto: “I mel, i per i ban’n…L’uva!”) in poi. A cadenza insistita ed insistente, un tambureggiare di sofismi improvvisati e filosofie del campo (di grano). Chicche da morir dal ridere, un mondo virtuale in cui appaiono battute “at chain” (a catena) e che attirano tutti, indistintamente. Tra i fan della pagina c’è tutto il ventaglio sociale della foggianità: dall’attore di teatro al politico, dal giornalista all’universitario, dall’ultrà al docente, dallo studente sino all’imprenditore di successo. Il profilo muove le dita favorevoli di un insieme sfaccettato e composito, un interclassismo cibernetico che manco la Democrazia Cristiana dei bei tempi.
Con “Detti foggiani inglesizzati” si ride senza soluzione di continuità. Si ride degli stessi propri vizi linguistici, di un’antropologia minimalista intenta troppo spesso a gonfiare i bicipiti dell’orgoglio campanilistico. Perché ogni foggiano non può che ritrovarsi in quelle parole. Per averle sentite negli spazi comuni, nei racconti dei nonni, nelle urla dei litigi genitoriali, negli intercalari scolastici, nelle partite di pallone.
Ci si ritrova, nel gorgo scherzoso, quasi adolescenziale del profilo, a “pittare” le unghie alle paperelle (“go paint the ducks’ nails”), a gonfiare i palloni di fronte alla villa comunale (“Go inflate the balloons in front of the Villa!”), a salutare sorelle lontane (“Send my greeting to your sister”) di buoni amici e conoscenti.
E non solo. Scorrendo le traduzioni si fa fatica a capire fino in fondo se poi si rida maggiormente per il detto in sé o per la sua traduzione approssimativa, incurante del purismo anglista.
L’approccio alla pagina è devastante. Sconquassa da dentro senza pietà, imprime il buonumore ed induce a prendersi meno sul serio. E non potrebbe essere altrimenti quando gli auguri di Natale sono racchiusi nella frase “Pettolas that aren’t made at Christmas, aren’t made at New Years, too” (“Le pettole non fatte a Natale non sono fatte neanche a Capodanno”).